Secondo lo studioso statunitense Lawrence Hansen, la musica di Dmitrij Sostakovic tocca «la nostra paura fondamentale, primordiale: la distruzione dellIo da parte di forze esterne, la paura che la vita sia inutile e priva di senso, la paura di quel male che si può allimprovviso scoprire nel proprio prossimo». Campo in cui il compositore russo poteva ben dire di parlare ex cathedra. Imbrattare note al tempo di Josip Stalin ed essere parte di quellintellighentsia che lautocrate georgiano volta a volta vezzeggiava o stroncava non era garanzia di una vita tranquilla. Sostakovic lo sapeva bene. Lopera lirica Lady Macbeth nel distretto di Mcensk era stata polverizzata nel 1936, in piena era di purghe, da un durissimo articolo sulla Pravda, nonostante fino a un attimo prima, e a due anni dal debutto e dai trionfi in patria e allestero, venisse annoverata tra le conquiste più alte della nuova arte sovietica.
«Questa è musica fatta appositamente alla rovescia affinché nulla ricordi la musica classica, nulla ci sia in comune con i suoni sinfonici, con il discorso musicale semplice, accessibile a tutti. Questo è caos sinistrorso anziché musica umana naturale». Detto in soldini, a Stalin (autore del pezzo), cultore di opera e balletto, lo sperimentalismo «formalista» stava sulle croste. E la sonora stroncatura gli era servita per dare una regolata alla vita artistica del paese, rilanciando la parola dordine del «realismo socialista» che, secondo la formulazione classica, «esige dallartista una descrizione veritiera, storicamente concreta della realtà nel suo sviluppo rivoluzionario» che coesista «con lo scopo del cambiamento ideologico e delleducazione dei lavoratori nello spirito del socialismo».
Sia come sia, Sostakovic riuscì a scamparla, a ritornare nel favore del despota e collezionare premi Stalin, salvo incorrere in altri alti e bassi. Ce li narra, con stile spigliato, acume e fittissima documentazione, il musicologo Solomon Volkov in Stalin e Sostakovic (Garzanti, pagg. 364, euro 26). Attento a indagare le maschere assunte da Dmitrij nei suoi rapporti col tiranno (quella dello juroddivyi, il «folle santo», quella dellannalista e quella del falso pretendente al trono) mutuate dal Boris Godunov di Alexandr Puskin, autore che si era trovato, un secolo prima, nella stessa sgradevole situazione di preservare il proprio talento nel clima non certo favorevole della Russia di Nicola I. Ma, soprattutto, fenomenale nello svelare le «chiavi» segrete delle opere di Sostakovic. Tutte, grazie a una fitta e raffinata rete di citazioni, manifesti di critica al regime stalinista.
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