Non amo le barzellette: né ascoltarle né raccontarle. Il più delle volte sono volgari, quasi sempre noiose, raramente spiritose. Amo, invece, l'umorismo, più o meno sottile. Esso è l'unico modo concepibile per giudicare serenamente o, meglio, interpretare la nostra vita ripetitiva, assurda, insensata. Anche le grandi tragedie umane, se guardate con occhio distaccato, contengono elementi che inducono a sorridere, consentendoci di metabolizzarle. Gli italiani del Nord subiscono ancora, a distanza di secoli, l'influenza della Commedia dell'arte, che ha fornito una chiave di lettura della realtà molto vicina alla comicità pura, fatta di sberleffi, astuzie e sotterfugi finalizzati alla sopravvivenza.
L'Italia ha sempre avuto difficoltà sociali: lo scontro fra ricchi e poveri non è mai stato aspro, bensì improntato a dialettica furba. Il servo si fa beffe del padrone e riesce a fregarlo. Il padrone, pur di essere servito, lascia correre. Finge di essere scemo. È la solita storia: il suddito pareggia i conti col principe, prendendolo in giro. Su queste basi, il conflitto produce effetti divertenti. Lasciamo perdere Pulcinella, che pure agisce alla stessa maniera: il suo scopo è buggerare il signore.
L'umorismo patrio di più recente conio trova un'esaltazione nel cinema: chiunque ricorderà il film intitolato I soliti ignoti , in cui i ladri risultano addirittura più onesti dei derubati. La nostra mentalità si riflette nella pellicola in maniera perfetta: facciamo il tifo per il popolo diseredato e consideriamo gli abbienti sfruttatori e indegni di essere rispettati. Non è un caso che il cattolicesimo pauperistico e il comunismo ribelle abbiano avuto terreno fertile dalle nostre parti. Già. Gli uomini squattrinati imbrogliano i danarosi per necessità. La giustizia togata perdona chi ruba per fame e castiga gli speculatori.
La nostra letteratura ha sistematicamente adottato (come il teatro) questo schema, tranne alcune eccezioni: Giovannino Guareschi l'ha buttata in politica; Achille Campanile, viceversa, raffinato scrittore, si è esercitato sul piano del costume, regalandoci prove di abilità mai raggiunte da nessuno, se si escludono Giovanni Mosca, Paolo Villaggio e Stefano Benni. Tutti costoro sono stati in grado di toccare corde esilaranti con esiti esteticamente apprezzabili. Rarità lodevoli, ma quasi irrilevanti. Per godere di effetti umoristici di alto livello bisogna leggere autori britannici, dei quali P. G. Wodehouse è la punta di diamante, a mio parere ineguagliabile. Egli ha prodotto - se non ricordo male - ben 96 libri uno più spassoso dell'altro, in cui ha descritto i connazionali con acume, scatenando nel lettore non solo risate senza soluzione di continuità, ma anche suscitando il desiderio di riflettere sulle manie, sui tic e sulla mentalità degli inglesi.
La sua prosa prodigiosa, sofisticata ed elegante ha così fissato sulla carta i caratteri distintivi degli anglosassoni: sia degli aristocratici sia dei domestici, senza mai offendere né gli uni né gli altri, presentandoli quali sono. A differenza dei colleghi di casa nostra, Wodehouse ha dimostrato che i nobili britannici sono tributari (in quanto a educazione e arguzia) dei loro servitori.
Il maggiordomo Jeeves (personaggio fisso nelle pagine del magnifico prosatore) è una specie di deus ex machina nelle vicende familiari dei suoi datori di lavoro. Risolve sempre con classe qualsiasi problema delle persone cui offre i propri servigi: è il regista discreto del castello in cui opera; mai invadente e mai supponente, egli si comporta da autentico dominus, al cui confronto i blasonati ai quali si dedica sono dei tangheri, più ingenui che cafoni, privi di praticità e financo di intelligenza. Nel contrasto tra i ricchi, impegnati a promuovere la loro scrofa da competizione, e la figura dell'attendente sveglio e sagace nella gestione delle dimore avite, emerge un dato incontestabile: il servo è assai più provveduto di coloro che serve.
L'umorismo si sprigiona dalle situazioni raccontate magistralmente da Wodehouse con un linguaggio alto e inimitabile, talmente ricercato e squisito da imporre una domanda al lettore: dove e quando egli avrà imparato a giocare così fioritamente con le parole? Questo è il punto. Il nonno dello scrittore era un calciatore, i genitori erano in bolletta, talmente indigenti da non potersi permettere il lusso di pagargli le spese dell'università. Tant'è che Pelham Grenville, nato il 15 ottobre 1881 a Guilford (e morto a New York il 14 febbraio 1975, a quasi 94 anni), dopo le superiori fu costretto a lavorare in banca, impiegato. Dove rimase per due anni senza entusiasmo e impegnandosi part time nella stesura di racconti di successo, che gli permisero presto di intraprendere quale unica attività quella del romanziere.
E qui si dimostra che gli studi universitari non sono fondamentali né decisivi per eccellere nel mestiere di narratore. Ma questo lo sapevamo già. Anche Gabriele D'Annunzio, Benedetto Croce, Eugenio Montale, Salvatore Quasimodo e Grazia Deledda (gli ultimi tre premi Nobel) non ottennero mai titoli accademici, eppure erano e sono i capisaldi della moderna cultura italiana.
Torniamo al «papà» di Jeeves. Il quale, consapevole della poca importanza a scopo letterario degli spunti offerti dall'attualità politica, per tutta la durata della propria esistenza si è disinteressato alle tragedie del Novecento, prima e seconda guerra mondiale incluse. Egli ha investito il suo talento in altre faccende, quelle editoriali, in particolare. Gli premeva riempire fogli su fogli dei suoi capolavori spassosi. Del resto non gli importava, almeno in apparenza, nulla. In Inghilterra (dove visse gli anni della giovinezza), che mise bonariamente alla berlina, sollazzando mezzo globo terracqueo, non soggiornò a lungo, essendosi trasferito negli Stati Uniti e in Francia assai presto, allettato da guadagni non trascurabili.
Gliene capitarono di ogni colore: belle e pessime avventure. A Hollywood fu consacrato sceneggiatore di grande spessore, e incassò denaro a palate. Non smise mai di girovagare. Si recò in Belgio, poi a Berlino, e in questa città condusse trasmissioni radiofoniche che gli procurarono grane con la madre patria, per via del nazismo, del quale ingiustamente fu accusato di essere fiancheggiatore. Balle sacrosante.
Cosicché in Inghilterra non rientrò mai più. E tirò le cuoia vecchio e stanco negli Usa, cui aveva strappato la cittadinanza.
Solo al termine della sua esperienza terrena ebbe qualche soddisfazione che non fosse soltanto economica: onorificenze, patacche varie. In Gran Bretagna è stato portato in trionfo da morto. Va bene così. Un umorista non può rinunciare a dilettarci neanche quando se n'è andato all'altro mondo.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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