La spada che infilza il futuro

Certo, la professione del samurai non è mai stata facile: seguire fedelmente la linea tracciata dal bushido, la «via del guerriero», richiedeva un rigore che sfociava spesso nella morte, causata dai nemici o da se stessi, quando il suicidio diventava l’unica alternativa alla perdita dell’onore. Ed anche il ronin («uomo alla deriva»), cioè il samurai disoccupato in seguito alla morte del suo daimyo (il signore di epoca feudale) o perché da quello licenziato, non se la passava bene. Ma pensiamo a un povero samurai imprigionato nel bozzolo di una vita da civile, mentre si dibatte e si macera per la frustrazione, a un samurai «in potenza» che gli usi e i costumi di una società a lui del tutto estranea condanna all’anonimato. Il suo è un destino ben più crudele perché, in quelle condizioni, la «via del guerriero» non è più un codice di comportamento, e diventa la grottesca caricatura di una posa inattuale.
Proprio così si sente, un samurai ipotetico, Kokubo Jiro, il protagonista del lungo racconto in cui Mishima Yukio porta alle estreme conseguenze, facendola indossare a un ragazzo, la propria filosofia. La spada (ora riproposto da SE, pagg. 122, euro 19, traduzione di Ornella Civardi) che Jiro usa con maestria tale da diventare una sorta di istruttore in seconda dei suoi compagni, non uccide: è uno shinai, il bastone formato da quattro canne di bambù legate insieme che nel kendo imita l’affilata katana. «Tutta la sua vita - scrive Mishima a proposito di Jiro - si sarebbe concentrata nella spada, in quel cristallo acuminato, in quel condensato di forza pura che altro non è se non la forma spontanea che assumono la carne e lo spirito quando si affilano fino a congelarsi in un unico raggio di luce». Jiro ricorda che una volta, da ragazzino, s’era imposto di fissare il sole, restandone abbacinato. «Così era anche l’integrità morale: una virtù abbagliante da non potervi fissare a lungo lo sguardo. Chi l’aveva conosciuta, però, continuava a vederne i segni - piccole macchie di luce danzanti qua e là». E quando, in un cameo che vale come omaggio/imitazione di un episodio edificante della vita di un vero samurai, il ragazzo costringe alla fuga alcuni teppisti che hanno ucciso una colomba nella sua università, Mishima parla di «insidie che gli aveva teso la poesia».
Non c’è poesia, invece, bensì uno spiccato gusto per la fiction, nella trilogia del nippo-californiano Dale Furutani incentrata sulla figura del samurai Matsuyama Kaze. Dopo Agguato all’incrocio e Vendetta al palazzo di giada, da Marcos y Marcos esce ora A morte lo shogun (pagg. 268, euro 15, traduzione dall’inglese di Michele Foschini). Bello, forte e coraggioso, questa volta Kaze è alle prese con un problema non da poco, essendo ingiustamente incolpato di aver attentato alla vita dello shogun Tokugawa Ieyasu.

Riuscirà a far trionfare la verità?
I tre romanzi di Furutani sono ambientati tra la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno del 1603 quando, vinta la battaglia di Sekigahara contro Mitsunari Ishida, Tokugawa Ieyasu instaura il periodo Edo, dall’antico nome di Tokyo. Soltanto l’epoca Meiji, dal 1868 al 1912, restituirà all’imperatore il proprio ruolo. Un ruolo che fino al proprio suicidio lo stesso Mishima, in qualità di aspirante samurai, rimpiangerà.

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