Cultura e Spettacoli

20 anni senza Renato Carosone

All'Italia di oggi manca l'ironia del maestro napoletano

20 anni senza Renato Carosone

20 maggio 2001, vent’anni fa, una domenica. Eravamo impegnati a seguire le trattative per il nascituro secondo governo Berlusconi dopo la vittoria alle elezioni politiche del 13 maggio. Assistevamo al trionfo della Roma di mister Fabio Capello che, vincendo a Bari 4 a 1, si cuciva sul petto quasi definitivamente il terzo scudetto della sua storia. Al Festival del cinema di Cannes tornava alla vittoria dopo 23 anni un film italiano: infatti si aggiudicava la Palma d’Oro “La stanza del figlio” di Nanni Moretti. In radio passava molto spesso una canzone semplice e orecchiabile, “Tre parole” della giovane cantautrice Valeria Rossi. Era l’ultimo anno con le lire, da gennaio 2002 gli euro sarebbero arrivati nelle nostre tasche. In quella domenica nella sua casa sulla via Flaminia a Roma se ne andava a 81 anni Renato Carosone. Il nome forse ai più giovani non dirà molto. Ma se iniziassimo a fischiettare o canticchiare “Tu vuo’ fa’ l’americano”, ecco che allora si dissolverebbe come d’incanto ogni alone di amnesia. Perché è stata l’arte del maestro Carosone a rendere immortale e internazionale questa canzone napoletana del 1956. Era nato il 3 gennaio 1920 in una Napoli vivissima, quella a ridosso della storica Piazza Mercato, luogo di febbrili scambi commerciali dalla fine del Duecento. Ai primi del Novecento Napoli era ancora la più importante delle città italiane e tra le più importanti d’Europa, soprattutto per la musica e per lo spettacolo in genere.

Nel 1937 diploma in pianoforte al Conservatorio di San Pietro a Majella, istituzione musicale autorevole e storica, e poi Carosone s’imbarcò per l’Africa. L’Italia fascista aveva conquistato con le guerre coloniali il suo “posto al sole”: Eritrea ed Etiopia, Massaua, Asmara e Addis Abeba. Carosone diventerà una stella del palcoscenico e tornerà in Italia solo nel 1946. Assieme alla moglie, la ballerina veneziana Italia Levidi detta Lita, e al di lei figlio Pino. L’Italia era distrutta dai bombardamenti anglo-americani del 1943-1945. Ma era un Paese pieno di fermenti. Napoli era diventata il porto strategico per gli Stati Uniti nel Mediterraneo da quando i soldati erano entrati in città l’1 ottobre 1943, dopo che la rivolta di popolo delle “Quattro Giornate” aveva scacciato gli invasori nazisti. Se questa militarizzazione del porto causò il sostanziale “divorzio” tra la città e il suo sbocco a mare (nodo in parte irrisolto ancor oggi), creò dall’altro lato una fervida commistione tra cultura popolare napoletana e mondo dei militari USA, incrocio ricco di suggestioni non solo immaginifiche. Ad esempio la “Tammurriata nera” di E.A. Mario del 1944 narra la storia di un “figlio della guerra” concepito da una donna napoletana e da un militare americano: “È nato nu criaturo niro, niro... E ‘a mamma ‘o chiamma gGiro, Sissignore, ‘o chiamma gGiro...”, cioè è nato un bimbo dalla pelle scura che crea scandalo nel quartiere. Ma qui capiamoci. Carosone le sonorità anglosassoni le aveva incontrate già in Africa dal 1941, quando gli inglesi conquistarono Addis Abeba; le conosceva già. Il jazz, il boogie-woogie, lo swing gli erano familiari. Torniamo alla Napoli del dopoguerra. Il 28 ottobre 1949 per l’inaugurazione dello Shaker Club, nuovo locale, Carosone e il chitarrista olandese Peter Van Wood aspettavano all’hotel Miramare il nuovo batterista. Si presentò alle prove Gegè Di Giacomo, che disse di non avere con sé il suo strumento perché era da un artigiano per la cromatura. Lasciando a bocca aperta Carosone e Van Wood, Di Giacomo andò in cucina, tornò con piatti bicchiere e due coltelli, li sistemò su un tavolo a mo’ di batteria e disse: “Possiamo cominciare”. Da quel momento diventò la colonna portante del “complesso Carosone”, percorso artistico non solo musicale, ma anche pièce d’intrattenimento, commistione tra note e varietà. Nella seconda metà degli anni Cinquanta si decise tutto: nel 1956 Carosone incontrò il paroliere Nicola Salerno, in arte Nisa, il 6 gennaio 1958 la banda al completo calcò il palcoscenico della Carnagie Hall di New York, secondo artista non di musica classica ad avere quest’onore dopo il clarinettista jazz Benny Goodman nel 1938. Sono di quegli anni gli straordinari successi del “mondo Carosone”: Torero, Chella là, O’ sarracino, Caravan Petrol, Pigliate n’ pastiglia, A’ sunnambula per citarne alcuni. Il filo rosso che lega queste espressioni sta nella capacità genetica di Napoli di rielaborare a modo suo qualsiasi cultura con cui venga a contatto. Nello specifico non esiste genere musicale che non abbia trovato una sua declinazione partenopea. E il registro è sempre quello di una dissacrazione simpatica: ti disarciono da cavallo, ma non ti faccio cadere a terra, ti mantengo prima che tu possa toccare rovinosamente il suolo. Prendiamo il testo di ‘Caravan Petrol’ (1958): “M’aggio affittato nu camello, m’aggio accattato nu turbante, nu turbante a’ Rinascente, cu ‘o pennacchio russ e bblu. Cu ‘o fiasco ‘mmano e ‘o tammurriello, cerco ‘o ppetrolio americano, mentre abballano ‘e beduine, mentre cantano ‘e ttribbù”. Nell’Italia dominata dall’ENI di Enrico Mattei e dal sogno dell’indipendenza energetica, Carosone racconta un napoletano che in una folle e surreale emulazione cerca l’oro nero nello sterminato sottosuolo della città. ‘O’ sarracino’ (1958), il saraceno, più che un’indicazione geografica relativa a un mediorientale, a un musulmano, sta a indicare un napoletanissimo tamarro, non troppo lontano da quello portato in note circa trent’anni dopo da Tony Tammaro: abbronzato, occhiali da sole d’ordinanza, camicia sbottonata a mostrare la catena d’oro sul petto. ‘Pigliate ‘na pastiglia’ (1957) è lo sberleffo alle prime manie e psicosi di un’Italia con la pancia piena del boom economico: l’insonnia, l’ansia, il desiderio per i farmaci più disparati e il loro effetto placebo: “Pígliate na pastiglia! Pígliate na pastiglia, siente a me! Pe' mme fá addurmí Pe' mme fá scurdá Il mio dolce amor… Dint’e vetrine ‘e tutt’e farmaciste La vecchia camomilla ha dato il posto Alle palline ‘e glicerofosfato Bromotelevisionato, grammi zero, zero, tre Ah!”.

‘Torero’ (1957), primo posto in classifica negli Stati Uniti per due settimane, è un ragazzo napoletano che sogna di diventare un torero, figura mitica e sciupafemmine. Sogno che diventa presto caricatura e quindi strepitoso sberleffo carosoniano: “Oh! Torero! Te si’ piazzat ‘ncapa stu’ sombrero, dice che si’ spagnuolo e nun è overo, Cu e’ nacchere ‘int’a sacca vaje abballà mescolando bolero e ccia-ccià, chi vuò 'mbruglià!... Torero! Cu sti bbasette ‘a sud americano, cu’ ‘nu sicario avana e ‘a cammesella ‘e picchè!... Torero! Torero! Olè!”. I romanzi di Vicente Blasco Ibáñez e di Ernest Hemingway avevano rinfocolato il mito del torero, assieme ai film in cui i re della corrida conquistavano donne come Ava Gardner, Lucia Bosè, Sofia Loren e Gina Lollobrigida. C’era bisogno di un toro benevolo che infilizasse un po’ il mito, ed ecco la canzone di Carosone. ‘Tu vuo’ fa’ l’americano’ (1956) merita un discorso a parte. Renato Carosone la scrisse di getto in circa un quarto d’ora sul testo di Nisa Salerno. Un mix magico di swing, jazz e boogie woogie in cui sempre il nostro napoletano immaginario e così reale allo stesso tempo si fa influenzare dalla cultura dei consumi di massa made in USA portata a Napoli dai militari americani: “e cazune cu nu stemma arreto” sono i blue jeans, “a’ cuppulella c’a’ visiera aizata” è il berretto classico dei giocatori di baseball, il whisky e soda era diventato un must per i locali attorno al porto, e le sigarette Camel immancabili.

Alla fine domanda Carosone a questo napoletano: “Sient’a mme chi t’ ‘o ‘ffa fa’?”, ma chi te lo fa fare? Senza Renato Carosone forse saremmo arrivati lo stesso a Pino Daniele, James Senese, Joe Sarnataro-Edoardo Bennato, Tullio De Piscopo e a tutta la new wave napoletana degli anni Settanta e Ottanta, il neapolitan power. Ma fu Carosone a indicare la via della commistione di generi musicali e la reinterpretazione secondo un registro napoletano scanzonato, dissacrante, ironico e autoironico. Pochi mesi dopo la morte del maestro Carosone, l’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001 avrebbe piombato il mondo in un’epoca cupa. E forse all’Italia di oggi fa difetto proprio un po’ di sana capacità di ridere di se stessa, di non prendersi troppo sul serio, di mantenere uno sguardo disincantato sulla realtà. Chissà il maestro Carosone cosa avrebbe cantato sui vaccini, sul politicamente corretto, su una crisi economica permanente, sugli influencer. Di recente la RAI ha meritoriamente ricordato il grande maestro con il film “Carosello Carosone”, con una magistrale interpretazione di Eduardo Scarpetta, attore napoletano e ultimo discendente di uno dei più nobili casati del palcoscenico nazionale e internazionale. Sì.

Forse un Renato Carosone ancora manca all’Italia di oggi.

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