Verona - Certo che se poi lui arriva così, smilzo scattante asciutto, la frangia tinta di fresco e il basso Hofner stinto dal troppo uso, nessuno lo potrà criticare: Paul McCartney non smette di ringiovanire e, avendo terminate le prime due, ora si vive la terza vita in posti come questo, l'Arena di Verona, uno dei pochi monumenti più longevi di lui. Prima i Beatles, poi i Wings, poi da solo, poi ovunque e comunque: Macca è l'araba fenice del rock o il Fregoli del pop, scegliete voi, il cambiamento innanzitutto. E forse non è un caso che inizi questo concerto (peraltro pazzesco sotto un cielo gonfio di pioggia, Arena tutta esaurita e migliaia di persone fuori in piazza Bra ad ascoltare la musica comunque) con Eight days a week, otto giorni alla settimana, un brano dei Beatles quando stavano diventando i Beatles, suppergiù 1964, e non si fermavano mai. Lui non si ferma neppure adesso che ha 71 anni freschi freschi e si concede la bellezza di 38 brani uno di seguito all'altro, roba che stecchirebbe qualsiasi ragazzetto appena sbocciato e invece qui scorre via perfetta, suonata da maestri (band da paura) e ascoltata da discepoli che non si stancherebbero mai: "Buonasera Verona, qui siete tutti matti", esordisce subito parlando in italiano. In platea ci sono Cesare Cremonini, Elisa, Paola Turci e un plotone di intenditori come Rudy Zerbi che ogni tanto si scambiano sguardi compiaciuti: mamma mia. È vero: Paul McCartney, all'occorrenza anche "sir" di Her Majesty, ha suonato ovunque, dall'Ed Sullivan Show al Live Aid al Colosseo, ma è sempre nuovo forse perché non si è mai fossilizzato su di un periodo sociale, non ha legato il suo nome a un'ideologia, è passato attraverso sei decenni (finora) imponendo il proprio marchio senza subire quello degli altri. Ovvio, direte, ha un patrimonio da due miliardi di euro e quindi son capaci tutti a fare quel diavolo che vogliono. Ennò. Qui c'è la forza delle canzoni e l'autorevolezza dell'interprete che riesce a essere presuntuoso e umile allo stesso tempo, a suonare canzoni come Lady Madonna o Eleonor Rigby (più o meno a metà show) che piacciono più al pubblico che a lui e pezzi come Mrs Vanderbilt che è dei Wings e forse non tutta la platea sa riconoscere.
Ecco perché McCartney rinasce ogni volta. Furbo o no, bulimico o meno, non riesce a stare troppo a lungo negli stessi abiti. Ha sostanzialmente sciolto i Beatles proprio per questo. E continua a sciogliersi ogni volta, a ritmo costante ogni lustro, inventandosi diverso per poter sostenere il peso di essere un Beatle, forse l'unico vero rimasto, che ha la missione di integratore del pop e che sia hard o easy listening non importa. Da Stevie Wonder (Ebony and ivory) fino a Youth, che è Martin Glover dei post metal/punk/dance Killing Joke suo compagno nei misteriosi Fireman. Ad esempio, lui ha appena fatto un featuring (così dicono i rapper) in Out of sight per il musicista produttore Bloody Beetroots, che è un guru dell'elettronica mondiale ma in realtà si chiama Simone Cogo, è di Bassano del Grappa ed è sempre a viso coperto quindi magari è venuto anche qui all'Arena ma nessuno se ne è accorto. Perciò quando Macca canta The long and winding road giusto prima di Maybe I'm amazed e I've just seen a face, tutte dei Beatles, qui all'Arena sembrano solo canzoni di Macca: più energiche come Back in the Ussr, talvolta ruvide, casomai sognanti come Ob-la-di Ob-la-da o tremendamente malinconiche perché Let it be (canzone numero 28 in scaletta) è un graffio al cuore di chiunque abbia già compiuto quarant'anni. A proposito: altro che gerontocomio. Qui in giro mica c'erano solo pensionati o pensionandi o tutt'al più pensionabili: c'erano ragazzi che magari hanno imparato a riconoscere Live and let die solo grazie alla cover dei Guns N'Roses o, peggio, al campionamento nella sigla del fu Matrix su Canale 5. Perciò McCartney, che tiene il palco con più padronanza di ogni altra rockstar a parte Mick Jagger, lascia sette bis su otto a brani dei Beatles.
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