Addio all'alieno, è volato via per cantare nuovi mondi rock

Morto a 69 anni il trasformista per eccellenza. Da Ziggy Stardust al Duca Bianco, ha sempre cambiato le regole del gioco musicale

Addio all'alieno, è volato via per cantare nuovi mondi rock

Chissà quale David Bowie se ne è andato l'altro giorno. Forse soltanto l'ologramma che da più di dieci anni appariva rarefatto e che ha atteso di pubblicare il suo testamento (l'ultimo album Blackstar uscito venerdì scorso) prima di dire ciao a tutti. Tutto il resto è ancora qui, nella musica che si ascolta ogni giorno in radio, nella moda, nella inquietante e compulsiva tendenza a cambiare personalità, look, stile, addirittura pensieri seguendo la lezione di Schumpeter: distruggi ciò che hai appena creato. Bowie lo ha fatto per tutta la vita, distruggendo il nome (si chiamava David Robert Jones, è morto come Bowie), il personaggio (è stato Ziggy Stardust poi Halloween Jack, Nathan Adler, il Duca Bianco), i generi musicali (è passato dal folk all'hard rock fino all'elettronica) e addirittura l'immagine pubblica. Era tornato sulle scene a sorpresa nel 2013 con il primo album dopo dieci anni e poi aveva di nuovo ucciso la propria visibilità limitandosi a rarissime apparizioni. Dopotutto non ne aveva bisogno.Quel signore alto, allampanato, con le pupille di colori diversi (risultato di una rissa da giovanissimo) è visibile ovunque da oltre quarant'anni, da quando dopo aver arrancato per quasi un decennio, è diventato una superstar con The rise and fall of Ziggy Stardust del 1972, mescolando brani già pubblicati e inventandosi una figura che lo ha accompagnato fino a oggi: l'alieno, forse non un extraterrestre (lui a Burroughs disse che Ziggy era un umano) ma senza dubbio uno metaforicamente di un altro pianeta. Fece il suo primo concerto nel 1962, a quindici anni, il suo ultimo nel 2004 ma la sua intera vita artistica (e forse non solo quella) è stata una messinscena che un giorno definì una volta per tutte: «La musica è il Pierrot e io, l'artista, sono il messaggio». Ne ha lanciati tanti, e tutti diversi. Nella triade berlinese di fine anni '70 (Low, Heroes, Lodger, tre dischi in realtà registrati solo in parte a Berlino) si reinventò più e più volte passando dal funk al beat motorik alla Kraftwerk. Poi, forse ripulito dagli eccessi di cocaina, asciugate le influenze negative di Lou Reed e Iggy Pop, iniziò a confrontarsi con gli altri, duettando con Tina Turner (Tonight), con i Queen (Under pressure), con Mick Jagger (Dancing in the street), attraversando gli anni Ottanta come popstar abbronzata prima di autodistruggersi di nuovo con i Tin Machine, gruppo ruvido e irrisolto che lo costrinse a tornare di nuovo solista, stratificando le apparizioni (niente tour dopo l'intervento al cuore e solo otto album in 23 anni) e diventando il primo divo a emettere titoli obbligazionari (con i Bowie Bonds ottenne 55 milioni di dollari che gli servirono per acquistare tutti i diritti sulla sua stessa musica). Insomma è una galassia senza latitudini che ha cambiato la fisionomia del rock portandolo alla fisiognomica, aggiungendo kabuki e mimetismo, sciogliendosi nella fantascienza e nel fantasy (anche come attore, specialmente in Labyrinth del 1986) lanciando inni come quel «possiamo essere eroi anche solo per un giorno» di Heroes che è il contrario della sua vita. David Bowie, sposato in seconde nozze con la modella Iman, è stato eroe fino alla fine, giocando con se stesso e su se stesso persino nell'ultimo video, Lazarus uscito l'altro giorno, nel quale appare inquietante e bendato su di un letto d'ospedale. E poi trattenendo il fiato finché non l'hanno visto tutti.

Poi se ne è andato, sgretolato dalla malattia, portandosi via l'unico volto che pochi hanno conosciuto, il suo. Tutte le sue altre facce rimangono qui, sparse intorno a noi, prototipi di una teatralità musicale dannata e luminosa sulla quale difficilmente si spegnerà la luce.

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