Addio a una penna "contro" col pallino del calcio corrotto

Una carriera in prima linea dalla Rai al «Fatto». Il sospetto di combine a Spagna '82 gli costò il posto a «Repubblica»

Addio a una penna "contro" col pallino del calcio corrotto

L'ultima notizia che lo riguardava prima di questa, la peggiore, quella della sua morte, era relativa all'uscita di un suo libro non incazzato. Una bella notizia. Lì, in Mio nipote nella giungla (Chiarelettere), indirizzato al piccolo Michele, Oliviero Beha non scrive da giornalista fustigatore, sfruculiatore, indagatore. Scrive da nonno. Un nonno saggio come sono, come devono essere per definizione i nonni, almeno quelli ancora combattivi, desiderosi di passare il testimone a chi di dovere, di dire ai giovani: ti spiego qualche cosa della vita per come l'ho vista e la vedo io, poi... vai avanti tu. E se in questo libro nonno Oliviero, a 68 anni, si mostra in grado di dettare la linea delle scelte individuali ben ragionate, ma da declinare all'interno della collettività, significa che questa stessa è stata la nota dominante della sua esperienza.

Si dice che quelli che hanno un brutto carattere, in fondo, sono quelli che hanno davvero carattere. E molti sottoscriveranno, anche fra chi lo conosceva bene. L'«io» può diventare ego dominante, certo. La forza della ragione può essere ragione della forza dialettica, espositiva, spiazzante, certo. E il sottile ma irresistibile piacere di sparigliare, di mettere un po' di sabbia negli ingranaggi delle altrui macchine può aver mandato Beha, in qualche occasione, fuori giri.

Un caso eclatante, e molto pop, anzi nazionalpopolare che lo espose molto, troppo al pubblico ludibrio del popolo tifoso (il popolo è spesso pericoloso, quando è tifoso a prescindere...) fu quello consumatosi a margine del Mundial spagnolo del 1982, quello di Pablito Rossi, di Sandro Pertini in tribuna con il re Juan Carlos e del vecio Bearzot portato in trionfo come un Cesare. Ricordate il pareggino alla camomilla fra Italia e Camerun? Beha avvertì un vago odorino di combine, lo sussurrò, lo disse, lo scrisse, con Roberto Chiodi, nel libro Mundialgate. «L'affare Camerun - disse poi - mi è costato la carriera. Sono stato mandato via da la Repubblica, dov'ero inviato speciale e anche dopo non ho avuto spazi per svolgere il mio lavoro. Ma sono stato fortunato. Ho ricevuto minacce di morte da parte della camorra, che era coinvolta nella cosa. Sono stato messo davanti a un bivio. Potevano farmi pagare con la carriera o con la pelle. Mi hanno portato via solo la carriera».

Non fu proprio così, visto che la sua carriera proseguì. Sempre alla Beha, fra l'altro. Ma il triplo «campioni del mondo!!!» di Nando Martellini attirò a posteriori l'attenzione degli italiani anche su di lui. Del resto con il calcio aveva iniziato, collaborando, fin dal 1973, con Tuttosport: proprio lui, fiorentino, sul giornale sabaudo. Chi ci ha lavorato, in quel giornale, e con Beha, ricorda che lo sport preferito di Oliviero era però l'atletica, mezzofondo per la precisione. Già allora, ventiquattrenne, voleva correre da solo.

«Considero questo mio scaffale personale, il luogo dove possa navigare volentieri, chi per avventura sia interessato a quello che ho fatto/scritto fino ad ora», è scritto nel suo blog. E di cose fatte/scritte ce ne sono tante. Su molte testate. Oltre a Tuttosport e a Paese Sera, in tandem, negli anni Settanta, La Repubblica, appunto, come inviato, poi come commentatore politico La Rinascita, Il Messaggero, e Il Mattino, L'Indipendente, l'Unità, Il Fatto Quotidiano di cui è stato cofondatore.

Un amico e collega (suo e nostro) che ci parla di lui ne sottolinea la cultura, non soltanto quella ufficializzata dalle lauree, due, una in Lettere, e l'altra in Filosofia, conseguita in Spagna. Si vedeva, si sentiva, quella cultura, anche in televisione, nei molti programmi creati, curati, tirati all'estremo com'era nel suo stile: insieme ad Andrea barbato a Va' pensiero. Poi Fluff, e soprattutto Video Zorro, dove lasciò un segno forte, una zeta che voleva essere l'ultima lettera, l'ultima parola su temi scottanti, bollenti.

«È stato un male molto veloce - ha detto la figlia Germana - papà se n'è andato abbracciato da tutta la sua grande famiglia allargata di parenti e amici». Ora i suoi libri, i suoi saggi, parlano per lui, come la moglie Rosalia, gli altri figli Saveria e Manfredi.

Ma forse oggi la testimonianza più forte, più sentita, dal profondo di una «solenne incazzatura» come quella di cui parlava un altro toscano scomodissimo, Luciano Bianciardi, è in quell'ultimo libro dal titolo e dal contenuto amorevole anche se fermo: Mio nipote nella giungla. Sì, tutta la vita, non soltanto il giornalismo, è una giungla. Quelli che lottano, alla fine ci muoiono.

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