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Addio al regista dell'anima tra campagna e industria

È morto a 86 anni uno dei più grandi protagonisti del nostro cinema che firmò «L'albero degli zoccoli»

Addio al regista dell'anima tra campagna e industria

La fortuna di Ermanno Olmi (classe 1931) e la forza del suo cinema hanno le radici nell'Italia degli anni '50 che aveva uno sguardo sul futuro molto più lungo e positivo di oggi. Dalla commistione tra l'industria più illuminata e il valore, profondo e non negoziabile, che Olmi dava all'essere umano, nasce tutto il suo cinema.

Così nel 1953 la Società Edisonvolta, dove lavorava da impiegato a Milano (qui era giunto giovanissimo dalla sua Treviglio natale in provincia di Bergamo), dapprima gli fornisce una cinepresa 16mm e poi gli mette a disposizione una Arriflex 35mm. Sono gli anni dell'apprendistato più fertile, Olmi si trasforma in uno dei registi italiani più preparati sul piano tecnico, cosciente soprattutto di quello che non vuole fare: «Non voglio costruire l'inquadratura, non voglio piazzare la macchina da presa, organizzare un bel movimento di macchina e dentro tutto questo collocare la vita che voglio rappresentare. Io desidero che la vita scorra indipendentemente dalla macchina da presa».

Decine sono i cortometraggi industriali, con collaboratori come Tullio Kezich, Goffredo Parise e Pier Paolo Pasolini, che gira fino al 1961 quando esordisce nel lungometraggio con Il tempo si è fermato, storia dell'amicizia tra il vecchio guardiano di una diga e un giovane aiutante. Il tema del lavoro, inteso come aspetto fondante della vita dell'uomo, è trattato, anche poeticamente, nell'altro film che Olmi gira nello stesso anno, Il posto, su due giovani (la ragazza Loredana Detto finite le riprese diventò sua moglie) al primo impiego in una Milano già da bere anche se solo nelle latterie d'epoca.

Subito dopo la sua poetica «irregolare» prende immediatamente forma alternando opere di osservazione quotidiana come I fidanzati (1963) con quelle a tema religioso. Ecco ...E venne un uomo (1965), un instant movie dietro cui c'è curiosamente Harry Saltzman (il produttore dei primi due film di James Bond) su un altro grande bergamasco, Papa Giovanni XXIII. Un film, poco amato in Italia, in cui Olmi fonde la sua forte religiosità con l'osservazione di un mondo umile in via d'estinzione incalzato dal boom economico. Esattamente come accadrà nei lavori successivi, Un certo giorno (1968), I recuperanti (1969), La circostanza (1974), prima di arrivare al suo capolavoro più celebre, L'albero degli zoccoli, Palma d'Oro nel 1977 al festival di Cannes, affresco di una cascina del bergamasco alla fine XIX secolo ma, in realtà, quasi fuori dal tempo. Forse per questo non fu capito da una parte della sinistra che ne criticava la mancanza della lotta di classe. Vale allora la pena di ricordare quello che di Olmi diceva l'amico Kezich: «È un individualista cattolico, refrattario a ogni impegno politico e sociale». E difatti Olmi sembra voler raccontare non tanto la perdita dei valori quanto quella dei ricordi.

Nel 1982, appena fondata la sua atipica scuola di cinema «Ipotesi cinema», torna sul grande schermo con Camminacammina, coltissimo racconto del viaggio dei Re Magi, prima di un periodo involontario di pausa per via di una sindrome all'articolazione delle mani. Cinque anni dopo completa Lunga vita alla signora, Leone d'argento alla Mostra di Venezia, mentre quello d'Oro arriva l'anno successivo con La leggenda del santo bevitore con Rutger Hauer da un racconto di Joseph Roth. Da un altro racconto celebre, questa volta di Dino Buzzati, nel '93 gira Il segreto del bosco vecchio interpretato da Paolo Villaggio mentre, appena entrato nel nuovo millennio, ecco a sorpresa il suo secondo capolavoro, Il mestiere delle armi premiato con ben 9 David di Donatello. Con la storia del condottiero rinascimentale Giovanni dalla Bande Nere e l'introduzione delle armi da fuoco, Olmi, ancora una volta, mette a confronto innovazione e tradizione.

Centochiodi con un inedito Raz Degan e Il villaggio di cartone, di poco successivi a Cantando dietro i paraventi con Bud Spencer nell'antica Cina, formano un dittico in cui il messaggio di povertà di Cristo viene immerso nella realtà di oggi quando anche la fede cattolica sembra vacillare.

Ma il testamento artistico rimane il suo ultimo film, Torneranno i prati (2014), che, nel centenario dello scoppio della Prima guerra mondiale, si concentra sul racconto, volutamente minimalista e minimale, degli ultimi giorni dei soldati italiani sul suo amato altopiano di Asiago. Dove viveva e dove avrebbe voluto ritornare, lasciato l'ospedale, per trascorrere le ultime ore. Non ha fatto in tempo. Ma è una splendida primavera lassù. E i prati sono tornati.

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