Cultura e Spettacoli

Così Hallyday è diventato la faccia francese del rock

Dalla musica al cinema la formula che lo ha reso grande era la stessa: guascone, irriverente ma sempre umile

Così Hallyday è diventato la faccia francese del rock

Bello e aitante, biondo, sprezzante, trasgressivo. E originale, o meglio unico, perché se esiste una bandiera del rock francese questa si chiama Johnny Hallyday, guascone come solo un vero rocker sa essere. Un tumore ha portato via l'Elvis francese a 74 anni, star del rock e viveur con impulsi d'autodistruzione, sempre controcorrente, anche se negli ultimi anni era grande amico e sostenitore di Sarkozy. Nel 2009, per celebrare mezzo secolo di attività, aveva dato l'addio alla musica con una megatournée ma aveva ripreso quasi immediatamente la strada del palco, e anche in questi giorni stava programmando una nuova tournée per il 2018. Nessuno credeva al suo ritiro ma lui l'aveva annunciato a Cannes, da attore (ha girato una cinquantina di film, tra cui lo splendido L'uomo del treno di Jean Rochefort) dicendo: «Ho una certa età, non ho più voglia di trovarmi alle tre del mattino, da solo, in una camera d'albergo, sapendo che il giorno dopo sarà la stessa cosa».

Era un ragazzo solo, come in Sains famille di Hector Malot, il piccolo Jean Philippe Smet (questo il suo vero nome) nella Francia postbellica. Il padre, un cantante e clown ammirato da Cocteau, e la madre modella lo abbandonarono in fasce. Fu facile trovare modelli nei ribelli di allora: Marlon Brando e James Dean, di cui copiava «l'aria da adolescente smarrito in un mondo di adulti che non sognano più» e giocoforza s'innamorò del rock. Rubò i dischi di Elvis e il suo esordio parigino, alla fine degli anni Cinquanta, fu davvero shoccante. Si presentò all'Astor di Montmartre, inguainato in un abito viola, urlando il testo di Tutti Frutti e rotolandosi per terra. I giornali parlarono di «isteria da baraccone» ma artisti come Maurice Chevalier, Charles Trenet e Roland Petit intuirono il suo potenziale e lo esaltarono. E lui da piacione scapestrato, con quella voce figlia del blues, ne approfittò nel migliore dei modi. Come il suo idolo Elvis cominciò ad indossare completi da cowboy e improbabili abiti fucsia, imbracciò una chitarra color salmone, incise il singolo Laissez les filles e, un po' fenomeno musicale un po' fenomeno da baraccone, conquistò la copertina di Paris Match. A due anni da quel primo concerto, 19enne libero e ribelle, Hallyday cantava davanti alla famiglia Kennedy, si esibiva con Ray Charles e Quincy Jones, trionfava all'Olympia davanti ad una entusiasta Marlene Dietrich.

Storie antiche, penseranno i giovanissimi. Chi si ricorda di questo Johnny Hallyday? Per far capire ai ragazzi chi era Hallyday fino a ieri, basteranno due aneddoti distanti una quarantina d'anni l'uno dall'altro. Il 13 ottobre 1966 Johnny tenne un concerto a Evreux e ad aprire lo show c'era un certo Jimi Hendrix. Il 12 novembre 2007 quando pubblico l'album Le coeur d'un homme, Bono degli U2 scrisse per lui il brano I am the Blues. «Io e Bono passammo una notte a Montecarlo a ubriacarci e a parlare di musica, e ad un certo punto lui disse: ti scriverò una canzone. Ci perdemmo di vista e passò diverso tempo ma un giorno quel brano arrivò. Non pensavo che l'avrebbe scritta per davvero». E poi 100 milioni di dischi venduti, l'isteria dei fan paragonabile a quella per i Beatles, le donne che gli s'offrivano e gli si gettavano addosso, le cariche della polizia per difenderlo dalla folla adorante. Ma mica roba di cent'anni fa. Il tour 2006-2007? Cento concerti davanti a un milione di spettatori complessivi. Anche il pubblico italiano ha imparato ad amarlo e (con la bella moglie Sylvie Vartan) lo ricorda come un sex symbol grazie a calde ballate come il supersuccesso Quanto t'amo. Un amore da lui caldamente ricambiato. «Chiamatemi a cantare in Italia - disse in una recente conferenza stampa -, soffro a non esibirmi qui. Amo Zucchero, avrei dovuto cantare con lui all'Olympia ma non ero in Francia».

E a chi gli ricordava che anche lui era una superstar rispondeva con aria sorniona: «sono uno come tanti, certe mattine sto bene, altre ho il mal di testa».

Commenti