Moriremo tutti concettuali? Praticamente una certezza. La forma d'arte apparentemente più difficile e ostica si è così radicata nelle nostre abitudini da risultare alla fine la più accademica e rassicurante. Tante volte abbiamo cercato di spiegarci il perché la cultura italiana si è fermata agli anni '70, bruciando così le generazioni degli ultimi decenni: inutile ribadire gli stessi concetti e andiamo avanti, prima o poi toccherà anche agli altri. Per ora il mercato e la critica non sembrano pronti.
Aldilà di tutto, Vincenzo Agnetti una mostra antologica nella «sua» Milano, a cent'anni dalla nascita, la merita. Un percorso di un centinaio di opere, prodotte dal 1967 coincidenza con la fondazione dell'Arte Povera - al 1981, quando scompare a soli 54 anni. La sua poetica si basa, con una scelta addirittura più estrema di Joseph Kosuth, sulla sfida di trasformare la parola in immagine. Erano quelli i tempi dello strutturalismo e della semiologia: romanzi, film, quadri, si devono analizzare a partire dai cardini linguistici; conta il significante, non il significato, la storia e la narrazione non sono più al centro perché espressioni eccessivamente personali, anche l'arte deve puntare sull'analisi. Tutto è linguaggio, per Agnetti che infatti spiega, «immagini e parole fanno parte di un unico pensiero. A volte la pausa, la punteggiatura, è realizzata dalle immagini, a volte invece è la scrittura stessa».
Lo spettatore del 2017 deve dunque entrare in una mentalità analitica e fredda che certo oggi ci sfugge, ma che guardiamo con interesse perché sfida la nostra capacità cognitiva. Qui la bellezza non c'entra, è l'intelligenza a essere chiamata in causa. In una Milano che ha visto passare il temperamento caldo di Fontana, gli esperimenti corporei di Manzoni, l'avanguardia elegante di Azimuth e il successo del design, Agnetti si porta dietro l'approccio intellettuale che oggi ritroviamo nei salotti dei collezionisti più snob. Da vivo, non costava troppo e non vendeva neanche tanto, perché un artista di ricerca tendeva a chiamarsi fuori dal mercato.
Tocca studiare, dunque, per avvicinarsi a un mondo così criptico e dunque affascinante. La mostra Agnetti. A cent'anni da adesso, curata da Marco Meneguzzo e visitabile gratuitamente a Palazzo Reale fino al 24 settembre, ha il dono della completezza. Opere e cicli importanti ci sono tutti: gli Assiomi, bacheliti nere incise in bianco, dove si misura con paradossi, assiomi, sintesi senza considerare altro che la scrittura; il Libro dimenticato a memoria, ovvero quanto sia importante sottrarre invece di ricordare; l'Amleto politico, installazione con sessanta bandiere dove lo stesso Agnetti arringa la folla in un'operazione che si estende alla voce e al teatro.
Molto interessante l'utilizzo della fotografia, uno strumento che non ha nulla di estetico, ma davvero luogo della sperimentazione, dove si possono provare nuove soluzioni formali e soprattutto si può fermare il tempo.
Agnetti non si limita all'arte visiva e, come Emilio Isgrò, si considera anche la possibilità di esprimersi con letteratura, seppur sui generis. Il suo romanzo Obsoleto inaugura nel '68 la collana «Denarratori» di Vanni Scheiwiller, altro significativo esponente dell'avanguardia milanese a tutti i costi.
Ma ad Agnetti l'Italia non basta, apre uno studio a New York per sondare un ambiente ancor più cosmopolita. Anni di indubbia energia, dunque favolosi, con un vago sospetto di pretestuosità. Mi viene in mente l'aforisma anonimo, «Mi spezzo, ma non mi spiego». Gli calza alla perfezione.
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