«Uno degli scrittori americani puri»: così il Premio Nobel per la Letteratura Saul Bellow ha definito William Kennedy, autore rimosso dalla memoria (e dalle librerie) che oggi torna in una nuova edizione per Minimum Fax con il suo romanzo forse più noto: quell'Ironweed poi portato sul grande schermo con protagonisti Jack Nicholson e Meryl Streep. Romanziere, saggista, sceneggiatore (ha collaborato con Francis Ford Coppola per la stesura del film Cotton Club) ha avuto come maestri due autori agli antipodi (il rigoroso Saul Bellow e lo spericolato Hunther Thompson) che hanno influenzato notevolmente la sua scrittura: da Bellow la capacità di raccontare ciò che vedeva dalla finestra come «commedia umana», da Hunther Thompson la visionarietà intrisa d'ironia e al contempo di amarezza. Con Ironweed che molti editori non volevano pubblicare- si aggiudica il Premio Pulitzer nel 1983 proprio grazie a questi due registri narrativi e stilistici così diversi ma che convivono ad ogni pagina: un realismo quasi straziante e uno stile poetico capace di slanci lirici che pochi autori anche oggi riescono a coniugare. Nato ad Albany nel 1928 è nei sobborghi di quella cittadina dove è cresciuto- che ha ambientato la maggior parte dei suoi romanzi (in Italia sono stati tradotti soltanto Il grande gangster nel 1985 per Frassinelli e Ironweed nel 1988, entrambi purtroppo allora passati inosservati).
Proprio ad Albany, nella Valle dell'Hudson, a più di 200 chilometri da New York, Kennedy si è confrontato con i temi dell'emarginazione: che fossero criminali, immigrati irlandesi, politici senza scrupoli o sindacalisti collusi.
Con Ironweed (Minimum Fax, traduzione di Luciana Bianciardi, curatela di Luca Briasco, pagg. 288, euro 17), ambientato durante la Grande Depressione, Kennedy ci regala un qualcosa che è capace di andare oltre la letteratura per entrare dritto nell'arte: quella che non ha parole, tratti, cornici, immagini o riprese, ma quella che ti entra direttamente sotto pelle, ti rimane dentro, ti sconquassa e ti fa comprendere cosa significa per un essere umano sentirsi «polvere nella polvere». Ironweed è esattamente come la pianta americana del titolo: con foglie acuminate, lo stelo eretto e fiori di un intenso blu-violetto. Perché è un romanzo duro come un pugno nello stomaco, se lo leggiamo con l'occhio borghese dei benpensanti, senz'altro tragico: capace di farci passare dalle lacrime allo sbattere i pugni sul tavolo e chiedersi perché. Il perché della vita, il perché di certe vite, il perché del dolore, il perché di certi dolori.
Come ha scritto Saul Bellow «Kennedy ha saputo trarre i suoi materiali dalla strada e conferire ai suoi personaggi una straordinaria intensità umana. La gente di cui scrive non è consapevole della propria emarginazione, e viene sempre rappresentata dall'interno, con uno sguardo profondamente partecipe. Sono commosso dai suoi protagonisti, e dalle loro ingenue ma umanissime fragilità».
La storia vede Francis, un ex promessa del football americano, ubriaco, lasciarsi sfuggire dalle mani il figlio neonato: caduto per terra con esito fatale. Un incidente che Francis non si perdona: cerca di dimenticare ogni giorno che Dio ha creato, alcune volte ci prova, vigliaccamente perso nell'oblio dell'alcool, ma non ci riesce: perché dimenticare un dolore così immenso e devastante? No, dimenticare non è umano. Francis non riesce ad andare avanti: non riesce a trasformare il dolore in un dono per gli altri o per cercare di rialzarsi: si abbandona sempre più verso l'abisso, accompagnato nelle sue giornate da Helen, una senza tetto che si è persa per strada sin dalla giovinezza. Un degrado umano che, però, in molte pagine riesce a regalarci passaggi di un tentativo di riscatto tra le strade della cittadina di Albany, che certi giorni sembra fredda come la più spietata delle metropoli. Un romanzo che non bisogna perdere: per capire attraverso il vagabondaggio dei due protagonisti, tra missioni dove cercare un pasto e angoli dove cercare rifugio per la notte, cosa significa vivere «tra l'inferno e il purgatorio».
Ed è in un continuo alternarsi di sensi di colpa e di redenzione, di autolesionismo e speranza che Kennedy riesce a raccontare, in realtà, il microcosmo di una cittadina sospesa tra la perdizione e la paura di un futuro che sembra non liberare mai nessuno dai propri fantasmi: gli emarginati come i benpensanti.
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