"Alfredino", la fiction delicata e spietata su una storia che fa ancora soffrire

La serie in due date dedicata al piccolo caduto nel pozzo è rispettosa ma, malgrado l’esito noto, capace di rinnovare il dolore. Racconta quanto di buono nacque dal dramma, ma la sconfitta collettiva resta

"Alfredino", la fiction delicata e spietata su una storia che fa ancora soffrire

A quarant’anni dai fatti arriva Alfredino – Una storia italiana, mini serie che ripercorre la vicenda del piccolo Alfredo Rampi, il bambino che cadde in un pozzo artesiano e i cui tentativi di salvataggio tennero per sessanta ore col fiato sospeso l’intero Paese.

La tragicità di quei giorni di giugno del 1981 è una ferita indelebile nella memoria di chi all’epoca seguì la prima lunga diretta della televisione italiana, divenendo testimone di una via crucis che vide alternarsi continuamente speranza e sconforto.

“Alfredino” ha quasi le fattezze di una docufiction, per come il racconto è puntuale e didascalico nel ricostruire dettagliatamente quei quattro giorni infiniti. Sfruttando la soggettiva dei soccorritori nel pozzo, ma senza mai mostrare il bimbo (d’accordo con la famiglia), si evidenzia la disorganizzazione di un Paese la cui macchina degli aiuti presenta ancora varie falle. Sarà la lucidità della madre del piccolo, la Signora Franca (una credibile Anna Foglietta), a creare i presupposti, con l’appoggio del presidente Pertini, per la fondazione della Protezione Civile.

Lo stile asciutto e la volontà di non cedere mai al sensazionalismo gratuito sono le caratteristiche principali di una narrazione che è sicuramente molto rispettosa. Al bando ogni retorico ricatto emotivo, “Alfredino” si concentra, con opportunità e decenza, sull’impegno profuso dall’umanità varia che fu coinvolta nei tentativi di estrarre vivo il bambino. Il focus registico è sull’abnegazione e sull’impotenza di chi si trova attorno a quel buco nero dalle pareti di roccia. Dell’esserino inghiottito non si mostrano mai le sofferenze, ma se ne ha eco e rappresentazione tramite chi, in superficie, riporta le risposte del piccolo e cerca di confortarlo. La claustrofobia e la frustrazione, nei soccorritori, si accompagnano al doloroso intento di mantenere calmo Alfredino attraverso una complicità gioviale, che prevede fraseggi su Mazinga e curiosità sull’autobotte rossa dei pompieri. L’innocenza e il fango si mischiano continuamente non a livello visivo ma in tutto il resto dei modi possibili, rinnovando il dolore per qualcosa di cui conosciamo già l’esito, essendo di fatto un lutto nazionale che non è mai stato elaborato.

Tra i protagonisti non ci sono solo i coniugi Rampi, ma figure (istituzionali e non) ree di un’arroganza destinata a suggerire scelte sbagliate, così come volontari pronti a morire pur di prestare aiuto. C’è anche una televisione la cui impudenza è mascherata dal continuo e proclamato proposito autoassolutorio di documentare una disavventura a lieto fine. La verità è che, in nuce, vediamo in scena tutto quel che diverrà triste normalità nei decenni avvenire: la tv del dolore, il turismo sui luoghi dell’orrore, gli odiatori pronti a condannare chicchessia.

Alla fine della partita con la morte, non avremo eroi né colpevoli. Nessuna recriminazione verrà avanzata dai genitori di Alfredino, ma sarà la denuncia programmatica di cosa non ha funzionato a squarciare il buio della sconfitta facendo filtrare la luce di vittorie future.

Nell’ultima ora di girato, infatti, va in scena l’alba di un Paese che tenta di riscattarsi dall’incapacità di gestire l’emergenza con razionalità e competenza. I coniugi Rampi trasformano il dolore in tenacia altruistica, prima con il Centro Rampi e poi con i suggerimenti per la realizzazione di un’istituzione preposta a evitare future tragedie come la loro.

Forse non esistono disgrazie sterili, ma è anche vero che nessuna è destinata a essere interamente esorcizzata: c’è una quota di dolore che va incamerata sapendo che non potrà essere trasformata in altro. Per questo l’ultimo episodio dei quattro in “Alfredino” non basta a riconciliare con la sua storia, a convertirne l’incubo in bellezza. Neppure a quattro decenni di distanza. Si tratta di imprinting e di perdita dell’innocenza. Fu una lunga diretta, fu un processo empatico di massa e infine divenne una ferita di portata collettiva. Ecco perché resta una vicenda indelebile.

Viene da chiedersi perché lo spettatore dovrebbe aver voglia di riviverla.

Ciò detto, la visione è caldeggiata per chi all’epoca non fosse ancora nato o in grado di intendere: per la risonanza che ebbe all’interno di ogni casa, la storia di Alfredino si intreccia a quella di ogni famiglia e perciò va conosciuta.

In onda il 21 e 28 giugno su Sky Cinema e in streaming su Now.

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