Un altro giro di Thomas Vinterberg, vincitore dell’Oscar al Miglior film internazionale, (premio che fino ad un anno fa si chiamava Oscar al Miglior film straniero), è in questi giorni al cinema.
Fa piacere che dalle parti dell’Academy non tutto sia consacrato ai diktat del politicamente corretto e che sia stata resa giustizia a un’opera ambigua e fuori dai canoni come questa. Cosa c’è infatti di apparentemente più diseducativo della storia di quattro professori di liceo che, in preda alla crisi di mezz’età, decidono di alleggerirsi la vita mantenendosi perennemente brilli? Li conosciamo all’inizio del film (su tutti quello interpretato da un pacato ma eccelso Mads Mikkelsen), quando viene passato in rassegna il loro malcontento. Accomunati dalla medesima palette di grigiore esistenziale e sotto l’aggravio delle responsabilità legate all’età adulta, i nostri hanno perso smalto e passione: nessuna traccia dello slancio vitale conosciuto in gioventù.
Durante una cena di compleanno in un ristorante chic, degustando del buon vino, uno di loro espone la teoria del filosofo danese Finn Skårderud, per cui gli esseri umani nascono con un deficit alcolico che andrebbe compensato mantenendo una costante percentuale di alcool nel sangue: esattamente lo 0,5% (equivalente a uno o due calici). Decidono allora di imbastire un vero e proprio studio accademico in cui valutare scientificamente gli effetti dell’applicazione di questa teoria sulla loro vita sociale e professionale. I primi risultati sono incoraggianti: la giusta dose di alcool stimola la creatività, affievolisce la percezione dei problemi, il senso di isolamento e la difficoltà nel manifestare sentimenti. Ma quando si spingono oltre, volendo indagare quale sia l’emancipazione prodotta allo stadio alcolemico massimo, il tracollo è dietro l’angolo. I quattro docenti hanno sottovalutato lo “svantaggio aureo”: più bevi e più vorresti bere.
In “Un altro giro” i protagonisti non vanno tanto in cerca di uno stato euforico (sarebbe pagato a caro prezzo considerata la sua provvisorietà), quanto del recupero della fiducia in sé e della vittoria sull’ansia di fallire. Nel viaggio consapevole (e addirittura mosso da un afflato scientifico autoassolutorio) verso uno “stato alterato di coscienza”, si assiste a come sia difficile, in itinere, scorgere il punto da non superare, quello di non ritorno.
Appare credibile la messa in scena di dinamiche di gruppo tra individui ritrovatisi, da adulti, demotivati e spenti. Nel racconto, l’assunto di base, anche se sottinteso, è che obbedire ciecamente alle regole della cosiddetta società civile, inaridisca e metta a dura prova l’entusiasmo. La scintilla vitale, del resto, si opacizza col trascorrere del tempo e con il sedimentarsi di sogni infranti e aspettative deluse. L’alcool, fluidificante sociale e morale, obnubila la mente e disinibisce l’azione, ma soprattutto risponde alla sete di socialità e di vita (quella provata da tutti con le limitazioni anti-Covid).
Anche se la sceneggiatura gigioneggia più volte, rammentando come bere abbia aiutato Churchill a vincere una guerra o Hemingway a scrivere capolavori (per citare due degli spassosi esempi), mai vengono taciute le nefaste conseguenze dell'abuso di alcolici.
“Un altro giro” suggerisce, però, di allentare ogni tanto il nodo alla cravatta e partecipare al ballo della vita con spensieratezza dionisiaca. A questo proposito, la scena finale, nel mostrare come si possa aderire febbrilmente all’istante presente, vale da sola la visione del film.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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