Fra i tanti libri che affollano i festival e le vetrine dei bookstore della nuova stagione autunnal-editoriale, ce n'è uno che ci sentiamo di raccomandare ai lettori, ma soprattutto ai politici e agli intellettuali, in particolare della riva sinistra. È il saggio di Mirella Serri Gli irriducibili (Longanesi), ossia la Storia, fatta di tante storie individuali, dei dissidenti che nel Ventennio sfidarono Mussolini. Un libro sul manipolo di giovani, a lungo dimenticati, che nell'invincibile Italia mussoliniana furono costretti a fuggire in Francia, in Palestina o persino in Tunisia, perché non vollero rassegnarsi al consenso totalizzante del fascismo: professorini, studenti, scrittori e giornalisti che - con forze limitate e volontà ferrea - ben prima dell'inizio della Resistenza, si scagliarono contro la dittatura come poterono: con sabotaggi, attentati, stampa clandestina... Si chiamano Giorgio Amendola, Enzo ed Emilio Sereni, Giuseppe Di Vittorio, Maurizio Valenzi, Ada Sereni... Erano comunisti, socialisti, attivisti di Giustizia e libertà, repubblicani. Tutti però allo stesso modo ribelli, senza compromessi. Ed ecco, allora, il valore del libro, oltre alla minuziosa e spesso inedita ricostruzione storica di Mirella Serri: quello di far capire - a quanti oggi abusano dell'accusa di fascismo - chi fossero i veri antifascisti. Se l'antifascismo in assenza di fascismo è solo pretestuoso, o una facile arma propagandistica (in chiave anti-salviniana ad esempio) oppure una schifosa scorciatoia per censurare opinioni diverse, un libro come Gli irriducibili serve a spiegare agli antifascisti da tastiera, quelli che comodamente seduti alle loro scrivanie lanciano odio e indignazione contro quanti non la pensano secondo il pensiero di regime (ad esempio su come gestire i flussi migratori fuori controllo), o ai predicatori da red carpet, quelli che basta un premio a favore di telecamera per scatenare una paternale contro il razzismo strisciante dell'Italia contemporanea, cosa veramente fu l'antifascismo.
Un libro che dimostra come si possa parlare di antifascismo soltanto se si paga un prezzo, altrimenti è pura retorica. Quel gruppo di giovani fu antifascista perché esisteva un fascismo, e perché dicendo «NO» furono costretti a scappare dall'Italia, persero le cattedre universitarie, persero le collaborazioni coi giornali, persero il lavoro, persero gli affetti, la famiglia, spesso la salute, persero la libertà e persino la vita. È un libro da far leggere a tutti gli intellettuali e gli artisti di sinistra che usano la parola fascismo senza rispetto: gli «antifascisti» con cattedra in via Solferino, quelli che non saltano una domenica su La Lettura o su Robinson, quelli che non si perdono un'ospitata a un festival che sia uno, che pubblicano per tutti gli editori mainstream, che hanno le consulenze pagate oro al Salone del Libro di Torino ma poi gridano alla dittatura della Lega, quelli che iniziano a parlare al mattino alla rassegna stampa di RaiTre e finiscono alla sera su Otto e mezzo, ma per loro viviamo in un regime, quelli che «È tornato il fascismo!» ma loro non sono mai andati via. Restano sempre lì.
È la sinistra che con la scusa dell'antifascismo non fa che perpetuare l'insano meccanismo degli attacchi personali, dello zittire l'altro non appena dissente dalla vulgata (pro migranti, o pro Europa, ad esempio), dandogli del «Fascista!». Tanto non perdono niente. Anzi aumentano inviti, prebende, collaborazioni, incarichi, consulenze. Tutto in nome, naturalmente, dell'antifascismo.
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