"Quel ballo folle dell'élite con le pazze di Parigi"

La scrittrice Victoria Mas racconta la storia della notte in cui l'alta borghesia si mischiava con le pazienti psichiatriche

"Quel ballo folle dell'élite con le pazze di Parigi"

Dopo Valérie Perrin, bestsellerista del 2020 in Italia con il suo Cambiare l'acqua ai fiori, la casa editrice e/o pubblica quello che è stato il caso letterario del 2019 in Francia (e che sarà presto anche un film con la regia di Mélanie Laurent), Il ballo delle pazze di Victoria Mas (pagg. 186, euro 16,50), giovane autrice dalla bellezza molto francese al suo esordio nel romanzo, dopo aver lavorato nella scrittura per il cinema. Il «ballo» del titolo è quello che, nella Parigi di fine Ottocento, si teneva all'ospedale psichiatrico della Salpêtrière, e dove l'élite benpensante cittadina incontrava le «pazze» lì rinchiuse, e si mischiava con loro, per una notte, in tempo di Quaresima.

Victoria Mas, come ha scoperto questa storia?

«Conoscevo la Salpêtrière solo per nome; poi, tre anni fa, ho accompagnato un amico in visita e sono rimasta colpita dal luogo, così vecchio e imponente, e dalla strana energia che lo circondava. Così ho voluto saperne di più e ho scoperto che prima era una prigione per sole donne e poi è diventato un manicomio, e che vi si teneva davvero questo ballo, il che mi ha sorpreso moltissimo: non pensavo potesse avvenire qualcosa di simile nella Parigi di fine Ottocento».

Non è incredibile?

«Sì, è arduo pensare che le pazienti dell'ospedale, che soffrivano di problemi psichiatrici, potessero diventare una forma di intrattenimento per la borghesia. La fine del XIX secolo è talmente vicina a noi, sembra ieri».

Che luogo è la Salpêtrière?

«Fu costruito nel '700 come ospedale per ripulire le strade di Parigi da tutti gli indesiderati: vi imprigionavano prostitute, senzatetto, donne che vagavano per le strade. A un certo punto vi erano ospitate diecimila donne, in condizioni terribili. Poi fu trasformato in manicomio, anche se lo chiamavano ospedale, per donne con problemi psichici, isteriche, nevrotiche, e per tutte coloro che erano un peso per le loro famiglie».

Nel 1885, l'anno in cui è ambientato il romanzo, c'era però un grande scienziato, il dottor Charcot.

«Era il direttore della sezione delle isteriche ed è stato un pioniere nel campo, nel curare le donne e nell'utilizzo dell'ipnosi per capire le cause e i sintomi della malattia. Era un metodo innovativo per il luogo e per l'epoca, in cui non c'era attenzione all'aspetto psicanalitico o psicologico, e l'approccio era soltanto anatomico e neurologico».

La sofferenza era ignorata?

«Molte di quelle donne avevano subìto abusi fisici o sessuali, ma questo aspetto non veniva mai preso in considerazione. Si lavorava solo sull'anatomia e sull'area genitale per risolvere il problema».

L'ipnosi era come uno spettacolo.

«Le sessioni di ipnosi erano aperte al pubblico e le pazienti venivano messe in mostra di fronte a uomini di ogni tipo, non solo medici, ma anche giornalisti, artisti, borghesi. Era una forma di oggettivazione forte: le donne lì, sul palco, erano solo i loro corpi».

Chi sono le protagoniste del romanzo?

«La storia è raccontata dal punto di vista di Geneviève, l'infermiera che gestisce la sezione delle isteriche, e che è come un ponte fra due mondi, i dottori e le donne, l'esterno e l'interno; lei condivide la visione dei medici, cioè che le donne non siano delle pazienti bensì delle pazze, alle quali è data solo questa identità, e non quella di persone che soffrono».

E poi?

«Poi avverrà un grande cambiamento nel modo in cui vede le cose... Le altre donne sono costruite come degli archetipi: Thérèse che non vuole lasciare il manicomio, perché è un luogo al sicuro dalla violenza della città; Louise che è ispirata a una celebre paziente, Augustine, e come lei aspira alla fama; e poi Eugénie, che appartiene all'alta borghesia ed è stata fatta internare dal padre, perché pratica lo spiritismo. Volevo che queste donne così diverse si incontrassero e si aiutassero, inconsapevolmente».

Si tradiscono, anche.

«Quella dell'epoca era una società patriarcale, ma ho scoperto che anche matrigne, sorelle e zie portavano alla Salpêtrière figliastre, sorelle e nipoti... Non ci sono solo uomini cattivi e donne buone, anche queste ultime hanno contribuito al sistema e alla società patriarcale; e credo che la violenza faccia ancora più male, quando è una donna a voltare le spalle a un'altra».

Quanto è difficile ribellarsi in un luogo del genere, come prova a fare Eugénie?

«Eugénie vuole solo uscire e trovare persone come lei, che praticano lo spiritismo. Questa è una grossa domanda: come puoi combattere il sistema che ti imprigiona? Se urli e ti disperi serve a qualcosa, o peggiori la situazione? Pian piano, Eugénie impara che deve capire bene quando, come e con chi parlare e che non può farsi ascoltare da tutti».

Com'era il «ballo»?

«Era chiamato davvero il ballo delle pazze e si svolse per vent'anni. Per le donne era un momento di gioia, si godevano la musica, il ballo e i costumi, provavano quasi un senso di normalità e, nel periodo prima e dopo l'evento, erano molto più calme e serene».

E per il «pubblico»?

«I parigini aspettavano che succedesse qualcosa di strambo, che una donna cadesse in catalessi, o che avesse una crisi isterica... Era un divertimento, appunto. Oggi ci sembra incredibile, ma allora era normale. A Parigi c'erano gli zoo umani, ogni persona diversa diventava una fonte di curiosità e, anche, l'occasione per dirsi io sono normale e rassicurarsi di essere nella gabbia giusta: loro dentro, noi fuori».

Le «pazze» ispiravano orrore e fascino insieme?

«Quelle donne erano respinte ai margini della società, la borghesia e le loro famiglie non volevano vederle o ascoltarle ma, allo stesso tempo, esercitavano questo fascino perché erano libere, anche negli abiti, e potevano essere viste come nessuna altra donna in città».

C'è molta solitudine nella loro vita.

«All'epoca le donne non avevano tempo di essere donne: prima erano figlie e sorelle, poi mogli e madri; il fatto che le famiglie le abbandonassero le faceva sentire sole perché non riuscivano a intravedere una vita senza padri e mariti. Alcune non volevano lasciare il manicomio proprio perché lì si sentivano al sicuro e meno sole».

Questa solitudine non c'è anche oggi?

«Probabilmente sì. Non c'è lo stesso tipo di rifiuto, ma si può farne esperienza con gli amici, in famiglia e nella società: più siamo connessi dai social e più ci sentiamo soli».

Come possono aspirare alla libertà queste donne?

«Per me era importante che ogni personaggio avesse un suo obiettivo. La libertà, per loro, è poter avere una scelta, poter decidere per sé: chiedono solo questo, di poter scegliere per sé stesse».

Come si scrive in modo così delicato di un tema così duro e profondo?

«Proprio perché era un argomento così profondo

e duro, ho scelto una prosa fluida e leggera. La scrittura doveva essere al servizio della storia, e non un peso o una distrazione per il lettore. Era essenziale avvicinarsi ai personaggi e poi lasciarli agire e parlare».

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