Cultura e Spettacoli

"Bang bang baby": rapsodia pop degli Anni 80 e della ‘ndrangheta meneghina

La prima serie italiana targata Amazon è un miscuglio surreale di crime e dark comedy, ma anche il romanzo di formazione di una teenager in bilico tra malavita calabrese e Milano da bere

"Bang bang baby": rapsodia pop degli Anni 80 e della ‘ndrangheta meneghina

Bang Bang Baby, di cui sono da oggi disponibili su Prime Video i primi 5 episodi (gli altri 5 usciranno il 19 maggio), è una nuova serie italiana che punta al mercato internazionale.

Ambientata negli anni '80, precisamente nel 1986, ha nella commistione di generi il proprio tratto distintivo: teen-drama, dark comedy, crime e melò non solo si alternano ma si integrano e coesistono in un cocktail bizzarro e a tinte pop.

Alice Giammatteo (Arianna Becheroni), sedicenne introversa, vive con la mamma Gabriella Giammatteo (Lucia Mascino) nella cittadina operaia di Bussolengo, in provincia di Verona. Il padre, Santo (Adriano Giannini), è stato ammazzato a colpi di pistola davanti ai suoi occhi dieci anni prima o almeno questo è quello che ha sempre pensato la ragazzina, fin quando se lo ritrova sulla prima pagina del giornale vivo e vegeto in quanto arrestato per oltraggio al pudore dopo esser stato trovato nudo in strada. Alice, volendolo incontrare a tutti i costi, riallaccia i rapporti con la famiglia paterna, i Barone, storico clan della 'ndrangheta calabrese trasferitosi a Milano. Per amore del genitore, accetta alcuni incarichi atti a proteggerne la posizione. Per lui sarà disposta a esplorare il proprio lato oscuro, quello criminale che le scorre nelle vene.

L’incipit di “Bang Bang Baby” è folgorante e molto eloquente sulla cifra narrativa e stilistica che contraddistinguerà la serie: assistiamo ad un giuramento mafioso vissuto, nella mente di chi ne è protagonista, come una curiosa variante del celebre spot delle Big Babol in cui una ragazza mieteva vittime semplicemente scoppiando palloncini.

Quello di vedere l’orrore sempre mitigato da riferimenti allegri, è il modo in cui Alice filtra il mondo circostante. Le immagini sorridenti e patinate che provengono dalla TV la assistono nella rielaborazione degli sprazzi d’infanzia che a poco a poco le affiorano nella mente: è così che ricorda la permanenza tra i Barone come fosse stata la bimba di una sit-com americana, di quelle su una famigliola eccentrica ma felice. Tutto le appare come estensione dei telefilm, cartoni animati e videogiochi in voga tra gli adolescenti dell’epoca. Una strategia per prendere consapevolezza di appartenere per DNA a una stirpe di delinquenti ma non considerarla una cosa grave.

Del resto la ragazza è molto meno dura di quanto voglia apparire. L’enorme senso di vuoto, arginato solo episodicamente ricorrendo a compulsioni bulimiche, è l’inferno silente cui si accompagna da un po’. Se riesce, a poco a poco, a diventare una aspirante adulta sicura di sé è grazie all’autosuggestione, nata in sogno, di essere come la donna bionica e di avere un cuore d’acciaio.

Lo sguardo sull’evoluzione di Alice, in “Bang Bang Baby”, si alterna a scene in dialetto calabrese sottotitolato in cui i protagonisti assoluti sono i Barone, in primis il feroce boss di casa: nonna Lina (Donna Romano), che prepara il ragù e allo stesso tempo supervisiona lo smercio di droga e vari intrallazzi con politici corrotti. Nella capacità sincronica di compiere gesti amorevoli e crimini efferati, di avere una religiosità bacchettona e una moralità inesistente, risiede il comune denominatore tra i vari personaggi.

In “Bang bang baby” il racconto di formazione è inserito in un contesto in cui la lealtà familiare è tutto ma l’amore non è mai disinteressato. Che non ci si possa fidare delle promesse di redenzione da parte di chi ha in vendette, tradimenti e omicidi il proprio pane quotidiano, è un’evidenza che la piccola Alice fatica a cogliere, presa com’è dall’illusione che il padre cambierà.

Più della trama, ad avviluppare e divertire sono la caratterizzazione bizzarra dei vari personaggi e il contesto vintage ricostruito in maniera perfetta. Gli ambienti, i costumi, le canzoni in voga, i programmi televisivi: difficile trovare una summa più esaustiva delle icone nate nei magici Eighties. Da Pac Man al cubo di Rubik, dall’aerobica ai fast food, dai paninari al walkman, senza dimenticare i brand che erano lo status symbol del momento. Non manca niente.

A rendere un’esperienza godibile “Bang Bang Baby” è il mix perfetto della Milano degli yuppies e della Calabria più arcaica e orgogliosa della propria ritualità pagana. Universi distanti anni luce tra loro, cui si vanno a sommare anche le differenze tra capoluogo e piccola provincia.

La stampa ha avuto a disposizione solo i primi cinque episodi, non è quindi dato sapere se “Bang Bang Baby” si rivelerà un giro di giostra tirato troppo per le lunghe.

Il rischio è che inizi a stancare e ad annoiare proprio per l’insistita particolarità.

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