Cultura e Spettacoli

Quella bomba in Piazza Fontana fece esplodere decenni di tensione e tremare l'Italia

C'era chi voleva destabilizzare il Paese, sia a destra sia a sinistra. L'attentato diede il via a una strategia basata sulla lotta armata, le cui radici risalgono addirittura agli anni '50 Ma la democrazia resse l'urto degli estremismi

Paolo Buchignani

Dodici dicembre 1969: nella Banca nazionale dell'Agricoltura di Milano, in Piazza Fontana, esplode una bomba. 16 morti e 88 feriti rimangono sul terreno: una strage. Dopo quasi mezzo secolo da quell'episodio, giustizia e chiarezza non sono state fatte. Quella tragica vicenda fu subito circondata da un'atmosfera inquietante e oscura, fatta di complicità, coperture, depistaggi, specialmente da parte dei servizi di intelligence italiani e stranieri, di strani decessi (ben quindici testimoni dell'inchiesta scomparvero in circostanze poco chiare), tanto da essere interpretata, da gran parte dell'opinione pubblica, come una «strage di Stato». Essa si aggiunge ai molti misteri d'Italia.

Di sicuro sappiamo che a piazzare l'ordigno fu il terrorismo neofascista, dopo che per lungo tempo era stata accreditata la tesi della «pista rossa», con l'incriminazione del presunto estremista di sinistra Pietro Valpreda e con la morte (mai chiarita) dell'anarchico Giuseppe Pinelli negli uffici della Questura di Milano. Oggi, la grande distanza temporale, se non aiuta la verità giudiziaria, ci consente di meglio comprendere quell'evento, di collocarlo su di uno sfondo storico che contribuisce a illuminarlo, ponendolo in relazione con le vicende che lo precedono e con quelle che lo seguono, in particolare con il lungo, anomalo, Sessantotto italiano, con il suo decennale preludio, a partire dal 1956-58 e la sua, altrettanto decennale e sanguinosa coda, fino, almeno, al delitto Moro del 1978 e alla strage della Stazione di Bologna del 1980.

Piazza Fontana è l'esplosione di tensioni accumulatesi fin dal 1956, con le ripercussioni in Occidente del XX Congresso del Pcus, l'avvio della stagione del centro-sinistra, la rivolta antifascista e antigovernativa (bersaglio il Msi e il governo Tambroni) che si scatena a Genova nel luglio 1960, quella di Piazza Statuto a Torino del 62, il cosiddetto «Piano Solo» del generale De Lorenzo del '64; ma, soprattutto, ciò che accade nel «biennio rosso» 1968-69: l'imponente e diffusa mobilitazione studentesca (la terza «rivolta» o «insorgenza populista» del 900, dopo l'interventismo della Grande Guerra e il fascismo delle origini, secondo Nicola Matteucci), cui si somma l'«autunno caldo operaio», «il più incandescente conflitto sindacale che l'Italia avesse vissuto dal dopoguerra» (Piero Craveri). Sullo sfondo il golpe dei colonnelli in Grecia nel '67, la Cuba castrista, la guerriglia guevarista, la guerra del Vietnam e le manovre americane di Nixon e Kissinger finalizzate a contrastare quella che allora sembrava l'irresistibile avanzata del comunismo nel Mondo. Uno scenario in cui si ineriscono sia le collusioni tra la destra neofascista e alcuni settori degli apparati statali, sia le pulsioni, ugualmente eversive, dell'estremismo rosso, la cosiddetta «Nuova sinistra» degli «operaisti» (Quaderni Rossi di Panzieri, Classe Operaia di Tronti, gli esordi di Sofri e di Asor Rosa), estranei ed ostili alla sinistra tradizionale, accusata di riformismo e di «integrazione nel sistema», e teorizzatori della rivoluzione comunista nell'età del neo-capitalismo.

A Piazza Fontana giunge a maturazione questo processo e, nello stesso tempo, da lì si scatena la cosiddetta strategia della tensione, che caratterizzerà il decennio successivo: una condotta illegale, segnata da un'escalation di violenze e ulteriori stragi, protagonista la destra extraparlamentare collusa con spezzoni degli apparati dello Stato e con soggetti riconducibili ad alcuni partiti, in particolare al Msi di Almirante. Ma una condotta che ha anche l'effetto di far lievitare ed esplodere, sull'altro versante, la violenza dell'estrema sinistra, sfociata nel terrorismo brigatista degli «anni di piombo». Violenza nera e rossa, dunque, violenza rigeneratrice o levatrice della storia, giustificata dagli uni e dagli altri, sulle orme del sindacalismo soreliano del primo 900, come necessaria alla rivoluzione. Una rivoluzione finalizzata all'abbattimento di quello Stato borghese-capitalistico che i due estremismi odiano, pur con motivazioni diverse, riconducibili alle rispettive ideologie.

I neo-fascisti, come molti dei loro padri cinquant'anni prima, sovente coniugano teorizzazioni rivoluzionarie con il sostegno a operazioni restauratrici e golpiste, quali, appunto, la strategia della tensione, nella quale, per esempio, si inserisce il tentativo di colpo di Stato del 1970, ideato dal Fronte nazionale di Junio Valerio Borghese con la collaborazione dei sedicenti rivoluzionari di Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale, che guardano con simpatia alla Grecia dei colonnelli e al Cile di Pinochet, due regimi reazionari sponsorizzati dall'odiato capitalismo americano.

Quanto all'uso della violenza, poi, molti di essi l'avrebbero in seguito giustificata con la necessità di impedire la vittoria del comunismo e di difendersi dalle aggressioni comuniste. In realtà la rivoluzione reazionaria dei fascisti prevedeva, da sempre, il ricorso alla violenza, così come la prevedeva, ugualmente, la rivoluzione declinata nell'estrema sinistra marxista; i cui esponenti, allo stesso modo, a distanza di anni, hanno cercato di spiegarla, se non di legittimarla, come una risposta necessaria proprio alla strage di Milano, interpretata come il disvelamento della vera natura dello Stato borghese, disposto, pur di difendere i suoi interessi di classe, minacciati dall'ascesa delle masse (il Sessantotto degli studenti, l'Autunno caldo degli operai), a utilizzare il terrorismo nero delle stragi per imporre una svolta autoritaria sull'esempio della Grecia e del Cile.

Se è vero che Piazza Fontana incoraggia e potenzia le pulsioni violente dell'estremismo rosso e induce alcuni suoi esponenti a scegliere la strada della lotta armata, non è tuttavia sostenibile, come molti hanno a lungo affermato, che la scelta della violenza e poi della clandestinità e del terrorismo siano da imputare soltanto a quella tragica vicenda. Già prima del 12 dicembre 1969 la Nuova Sinistra, in alcuni episodi sopra citati (dal luglio '60 di Genova, al '62 di Torino fino alla battaglia ingaggiata dagli studenti con le forze dell'ordine a Valle Giulia il 1° marzo 1968) non si era astenuta dalla violenza di piazza (che non è quella terroristica, certo, ma che talvolta ne è il preludio); non si era astenuta dal praticare e predicare la violenza, perché sedotta dal potente e pervasivo mito della rivoluzione di cui quest'ultima appariva una componente essenziale: sia per motivazioni ideologiche riconducibili al marxismo e al sindacalismo rivoluzionario primonovecentesco, sia per le suggestioni legate alla tradizione insurrezionalista di matrice resistenziale, rinfocolata dal fascino esercitato, specie nel mondo giovanile, dalla guerriglia sudamericana e vietnamita. Un'analisi, questa, confermata da quanto l'ex leader di Lotta Continua, Adriano Sofri, ebbe a dichiarare nel 2004: «Noi non abbiamo cominciato a credere non solo nella necessità ma addirittura nella virtù della violenza dopo il 12 dicembre. Noi ce ne riempivamo la bocca da molto tempo prima. Ed eravamo soltanto epigoni di una lunghissima tradizione di cui il culto della violenza ribelle e liberatrice era una parte assolutamente essenziale . Un'idea della violenza come passaggio decisivo e costitutivo dell'uomo nuovo: la violenza emancipatrice, la violenza come levatrice della storia». Sofri, inoltre, in questo passaggio, evidenzia un altro elemento essenziale della rivoluzione sessantottina: la sua radicalità, il suo carattere palingenetico, antropologico, religioso, dunque necessariamente totalitario e violento, che la colloca nella scia di un persistente e tenace radicalismo italiano, confermando la lettura che ne propone Matteucci come «rivolta populista», fondata su «idee semplici» e «passioni elementari».

Tutto questo contribuisce a spiegare la «lunga durata» del Sessantotto italiano, rispetto, per esempio, a quello francese. Il massimalismo, abilmente cavalcato e imbrigliato da Mussolini prima e da Togliatti poi, riemerge prepotente nel nuovo «biennio rosso» fine anni 60, corroborato ed estremizzato proprio dalla strage di Milano (si pensi soltanto alla vera e propria istigazione all'omicidio del commissario Luigi Calabresi, incaricato di svolgere le indagini su quella vicenda, da parte di Lotta Continua, che lo accusò della morte di Pinelli: una istigazione, come è noto, alla fine tragicamente accolta).

Inoltre, soprattutto, a differenza di altri Paesi occidentali, da noi l'estremismo sessantottino, nato fra gli studenti e molto politicizzato, sopravvive a lungo, perché, grazie all'iniziativa dei suoi leaders operaisti, riesce a saldarsi, nel '69, con l'Autunno caldo degli operai, in un fronte comune che radicalizza la lotta sindacale orientandola verso il raggiungimento di importanti, inediti obiettivi, quali lo Statuto dei lavoratori. La Cgil, ma anche il Pci di Longo, intenzionato a non avere nemici a sinistra e a capitalizzare la protesta, in questa fase blandiscono il movimentismo extraparlamentare, contribuendo certamente alla sua forza e longevità, salvo poi, intorno alla metà degli anni '70, prendere nettamente le distanze da certe sue manifestazioni violente (come, per esempio, l'assalto degli autonomi (i «nuovi fascisti») al palco di Lama nel '77, alla Sapienza di Roma), fino a condannare con nettezza il terrorismo brigatista l'anno successivo, in occasione del rapimento e dell'assassinio di Aldo Moro.

Condannarlo e stringersi solidali attorno alle istituzioni democratiche, le quali, a differenza del 1919-20, reggono il colpo e preparano le condizioni per la sconfitta del terrorismo, così come, nove anni prima, grazie anche al comportamento responsabile dell'opposizione di sinistra e dei sindacati, avevano sbarrato la strada alla svolta autoritaria perseguita dagli ispiratori della strage di Piazza Fontana.

Commenti