di Jeffrey Archer
Ottobre 1964
Brendan non bussò alla porta della cabina. Si limitò a girare la maniglia e a sgattaiolare dentro, con un'occhiata alle sue spalle per essere certo che nessuno lo avesse visto. Non voleva dover spiegare cosa ci facesse un giovane della seconda classe nella stanza di un anziano di rango a quell'ora della notte. Non che qualcuno avrebbe commentato.
«Rischiamo di essere interrotti?» chiese Brendan, una volta chiusa la porta.
«Nessuno ci disturberà prima delle sette di domattina e, a quell'ora, non resterà nulla da disturbare.»
«Bene» disse Brendan. Si inginocchiò, aprì con una chiave il grosso baule, ne sollevò il coperchio e studiò il complicato macchinario che aveva impiegato mesi per costruire. Nella mezz'ora successiva, controllò che non vi fossero cavi scollegati, che ogni manopola fosse regolata nel modo dovuto e che l'orologio partisse premendo un interruttore. Non si alzò in piedi finché non fu convinto che ogni cosa funzionasse alla perfezione.
«È pronto» disse. «Quando vuoi che lo attivi?»
«Alle tre del mattino. Mi serviranno trenta minuti per portare via tutto» aggiunse il vecchio Lord, sfiorandosi il doppio mento, «se voglio avere il tempo sufficiente per raggiungere l'altra mia cabina.»
Brendan si accostò nuovamente al baule e regolò il timer per le tre. «Non devi far altro che far scattare l'interruttore prima di andartene e verificare che la seconda lancetta sia in movimento. A quel punto, avrai a disposizione trenta minuti.»
«Dunque, cos'è che può andare storto?»
«Nulla, se i gigli restano nella cabina della signora Clifton. Nessuno in questo corridoio e, probabilmente, nessuno che si trovi sul ponte inferiore può sperare di sopravvivere. Nel terriccio sotto quei fiori ci sono tre chili di dinamite, ben più di quanta ne serva ma, così, saremo certi di intascare i nostri soldi.»
«Hai la mia chiave?»
«Sì» disse Brendan. «Cabina 706. Troverai il tuo nuovo passaporto e il tuo biglietto sotto il cuscino.»
«C'è altro di cui dovrei preoccuparmi?»
«No. Accertati solo che la seconda lancetta sia in movimento prima di andartene.»
Glenarthur sorrise. «Ci rivediamo a Belfast.»
***
Harry aprì la porta della cabina con la chiave e cedette il passo per far entrare Emma.
Lei si chinò per sentire il profumo dei gigli inviati dalla Regina Madre per celebrare il varo del Buckingham. «Sono esausta» disse, alzandosi in piedi. «Non so come riesca la Regina Madre a fare ogni cosa, giorno dopo giorno.»
«È quello che fa e lo sa fare bene, ma scommetto che sarebbe esausta se provasse a fare la presidentessa della Barrington's per qualche giorno.»
«Preferisco comunque il mio lavoro al suo» disse Emma, mentre si sfilava l'abito e lo appendeva nell'armadio, prima di scomparire nel bagno.
Harry lesse nuovamente il biglietto di sua altezza reale, la Regina Madre. Emma aveva già deciso di sistemare il vaso nel proprio ufficio al loro ritorno a Bristol e di riempirlo di gigli ogni lunedì mattina. Harry sorrise. Perché no?
Quando Emma uscì dal bagno, Harry prese il suo posto e si chiuse la porta alle spalle. Lei si sfilò la vestaglia e si mise a letto, troppo tardi anche solo per pensare di leggere qualche pagina de La spia che venne dal freddo di un nuovo autore che Harry le aveva raccomandato. Spense la luce dalla sua parte del letto e disse «Buonanotte, caro» malgrado sapesse che Harry non poteva sentirla.
Quando Harry uscì dal bagno, lei dormiva profondamente. Le rimboccò le coperte come se fosse una bambina, le diede un bacio in fronte e sussurrò «Buonanotte, mia cara» per poi infilarsi nel letto, allietato dalle sue fusa sommesse. Non gli sarebbe mai passato per la testa di insinuare che stesse russando.
Giacque sveglio, fiero di lei. Il varo del nuovo transatlantico non sarebbe potuto andare meglio. Si girò dalla sua parte, convinto di assopirsi nel giro di qualche istante ma, nonostante avesse gli occhi di piombo e si sentisse esausto, non riuscì a prendere sonno. C'era qualcosa che non quadrava.
***
Anche un altro uomo, ora al sicuro in seconda classe, era completamente sveglio. Nonostante fossero le tre del mattino e il suo compito fosse terminato, non ci stava nemmeno provando a dormire, anzi, stava giusto per mettersi al lavoro.
Sempre la stessa ansia ogni volta che c'era un'attesa. Si era lasciato alle spalle qualche indizio da cui si sarebbe potuto risalire a lui? Aveva commesso errori in grado di far fallire l'operazione e di trasformarlo nello zimbello di tutti, a casa? Non si sarebbe rilassato fintanto che non fosse stato su una scialuppa di salvataggio e, meglio ancora, su un'altra nave diretta a un altro porto.
Cinque minuti e quattordici secondi...
Sapeva che i suoi compatrioti, soldati impegnati nella stessa causa, sarebbero stati nervosi quanto lo era lui.
L'attesa era sempre la parte peggiore, fuori controllo, senza più nulla che si potesse fare.
Quattro minuti e undici secondi...
Peggio di una partita di calcio in cui sei sull'uno a zero ma sai che la squadra avversaria è più forte e capacissima di segnare nei minuti di recupero. Gli vennero in mente le istruzioni del suo comandante di zona: quando scatta l'allarme, fate in modo di essere tra i primi a trovarvi sul ponte e tra i primi a salire sulle scialuppe di salvataggio perché domani a quest'ora cercheranno chiunque abbia meno di trentacinque anni e parli con accento irlandese. Per cui, ragazzi, tenete la bocca chiusa.
Tre minuti e quaranta secondi... trentanove...
Fissò la porta della cabina e immaginò il peggio: la bomba che non esplodeva, la porta che si spalancava e una dozzina di bravacci della polizia, forse qualcuno in più, che facevano irruzione menando manganellate a destra e a manca, senza preoccuparsi di quante volte ti colpivano. Ma non udì nient'altro che il ritmico rumore sordo del motore mentre il Buckingham procedeva nel suo placido attraversamento dell'Atlantico, alla volta di New York. Una città che non avrebbe mai raggiunto.
© 2015 Jeffrey Archer
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