"The Book of Vision", piccoli Malick crescono al Lido

L'opera prima realizzata sotto la supervisione del maestro si distingue per la messa in scena di fascino, ma presenta una linea narrativa non all'altezza perché insapore e incerta

"The Book of Vision", piccoli Malick crescono al Lido

Presentato in anteprima come film d'apertura della Settimana internazionale della critica alla 77ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia, "The Book of Vision" è il debutto alla regia dell'italiano Carlo S. Hintermann.

Il film racconta di Eva (Lotte Verbeek), una giovane e promettente dottoressa che abbandona la carriera per immergersi nello studio della Storia della medicina. E' attratta misteriosamente da un libro contenente gli appunti di Johan Anmuth (Charles Dance), un medico vissuto nella Prussia del Settecento che era solito annotare speranze, paure e sogni dei suoi numerosissimi pazienti. Eva sente una connessione spirituale così profonda con quelle pagine da trarne la forza per prendere la più grande decisione della sua vita.

“The Book of Vision” ha ambientazioni suggestive e atmosfere visionarie in cui è facile ravvisare l'impronta estetica di Terrence Malick, grande autore cui Hintermann ha dedicato un documentario e che qui compare come produttore esecutivo.

Il fascino visivo del film è indubbio, frutto della presenza nel cast tecnico di eccellenze come il celebrato direttore della fotografia Joerg Widmer e il talentuoso scenografo David Crank. Il problema è che all'impatto delle immagini non corrisponde un disegno narrativo degno di questo nome. La trama vorrebbe essere profonda, complessa e ricca, almeno a giudicare dai tanti temi sfiorati: il rapporto tra medico e paziente, il passaggio da antiche forme di animismo a nuove idee razionaliste, la connessione tra vivi e morti, l'amore declinato nella maternità. Invece ci troviamo immersi in un vortice ininterrotto di false partenze, perché nessuno dei succitati argomenti è approfondito. Non si tratta della poetica del suggerito ravvisabile in Malick, si è solo preda di una continua oscillazione tra due epoche diverse. Il dualismo che anima il racconto e secondo il quale "ogni luogo, ogni oggetto, ogni azione ha un valore ambiguo, in bilico tra due dimensioni" (citando le parole del regista stesso), non dona un'allure visionaria bensì un effetto pot-pourri fine a se stesso.

La regia ha alcune idee valide ma non inedite e la protagonista fa della propria inespressività quasi un vanto, come se fosse l'unico modo di apparire enigmatica.

Insomma, "The Book of Vision" sancisce la sintonia artistica fra Carlo Hintermann e Terrence Malick e ha intuizioni estetiche che si fanno ricordare, ma non ha la statura della meditazione esistenziale sul valore metafisico della natura e sui moti segreti che animano le relazioni personali (cui sembra ambire

in alcuni momenti).

L'autorialità in Hintermann è ancora allo stadio embrionale. L'augurio è che in futuro il regista aspiri a creare qualcosa di visceralmente autentico, anziché la variazione sterile di uno stile non suo.

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