Il Boss torna al rock rabbioso contro la crisi (e il terremoto)

A 62 anni il cantante è sempre in sintonia con i tempi e il pubblico Ed esorta, in italiano, a riscoprire "le cose che rimarranno per sempre"

Il Boss torna al rock rabbioso  contro la crisi (e il terremoto)

Figurarsi, prima tutti belli cal­mi sotto il palco. Altro che concer­to, sembra un pic nic (molto) allar­gato. Ma alla prima nota di We take care of our own- batteria bas­so, chitarra- chi non salta poppet­taro è. Un putiferio. «Ciao Milano, siete pronti?». Il senso del rock, quello vero, quasi primitivo, è in questo Bruce Springsteen vestito identico a trent'anni fa che suona con l'energia di trent'anni fa da­vanti a un pubblico sempre lo stes­so, giusto appena un po’ disilluso. Capirai, all’inizio si sperava nella «Promise land», nella terra pro­messa. Adesso è un pelo più diffici­le. Ci pensa lui a siringare un po’ di fiducia con i brani dell’album più sfiduciato che abbia mai inciso, quel «Wrecking ball» che ha preso il massimo dei voti da Rolling Sto­ne e l’applauso del pubblico che non aspettava altro: una scarica di energia. Sarà per questo che Sprin­gsteen ( 63 anni a settembre) aspet­ta più del solito a iniziare il concer­to: tanto per caricare il deto­natore della platea.

Missione compiu­ta. Venti minuti prima delle 21, quando le note di«C’era una vol­ta in America» scendono malin­coniche dall’alto, ecco che parte il con­certo dell’anno (insieme con quelli di domenica a Firenze e lunedì a Trieste) per chi ha biso­gno di quella salvifica botta di energia old style regalata da una band con il volume al massimo.E’ tempo di «Wrecking ball», di palla demolitrice come dal titolo del suo album (e della seconda canzo­ne dello show) per riportare tutto dov’era e far finta di ricominciare daccapo. In fondo lui ci sta provan­do, con una E Street Band rinnova­ta causa lutto visto che Danny Fe­derici se ne è andato da un po’ e Clarence Clemons ha detto ciao l’anno scorso. Sul palco, così per dare un significato simbolico, c’è suo nipote Jake Clemons, anche lui al sax, anche lui finestra di luce soul e blues.Qui c’è l’àncora di sal­vezza di chi assiste al ricambio di priorità esistenziali che questi tempi impongono a tutti. Insom­ma, siamo nelle «Badlands», nelle terre cattive, e si bonificano con l’euforia che, proprio in «Badlan­ds », accoglie l’assolo di Jake fatto apposta per diventare il trampoli­no dei cori dei sessantamila quasi fossero una persona sola (ci sono anche Maroni e Pisapia). Forse c’èproprio bisogno di vedere Spring­steen suonare spalla a spalla con Little Steven sempre con la banda­na. O di lasciarsi coccolare dalla voce dell’icona più conservatrice del rock, così conservatrice da es­ser rivoluzionaria: canta come una volta, evviva. In un periodo in cui tutto cambia in tre mesi, una rockstar che non cambia mai è ras­sicurante. Ed è in forma, Springste­en, anche se qualcuno lo vede in­vecchiato, specialmente quando accoglie sul palco una bimba vesti­ta di bianco per farle cantare il ri­tornello di Waiting on a sunny day: «Sei molto brava», le dice ma solo per consolarla perché insom­ma il canto non sarà il suo futuro. Ci dà dentro, Springsteen, e pa­zienza se la voce è incurva­ta, forse appena arro­chita, ma sempre quella che un quin­to degli america­ni vorrebbe sen­tir cantare il nuo­vo inno: bilancia­ta tra bassi e acuti, quasi da capopopo­lo­ma mai da capopar­tito.

Già, questa è la diffe­renza. E il motivo per cui a San Si­ro, quando il soul elettrico di «My city of ruins» (mescolato a «Peo­ple get ready» di Curtis Mayfield), ha iniziato ad abbracciare lo sta­dio, Springsteen ha detto in italia­no le parole che riassumono que­st’epoca: «E’ un brano di saluti e ar­rivederci: cose che ci lasciano e co­se che rimarranno per sempre». Un cronista della nostra storia, questo è. Era in mezzo alla folla, giusto sotto il palco, un puntino nero in mezzo a migliaia di punti­ni neri. Poi«Jack of all trades»,spie­gata in italiano: «In America i tem­pi sono stati molto duri, la gente ha perso lavoro e case. So che an­che qui è stato durissimo e i recen­ti terremoti hanno contribuito al­la tragedia». Applausone.

Una rockstar della porta accanto che poi ha portato a casa tre ore a perdi­fiato, aprendo una parentesi di gioiosa malinconia che solo que­sto conservatore rock, il divo che ha attraversato quarant’anni con il gomito fuori dal finestrino e la musica a palla, adesso può conce­dersi di fare. E così bene, per di più. 

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