Come ormai ampiamente pubblicizzato quest'anno il rito operistico ambrosiano - vale a dire la stagione del Teatro alla Scala si apre con Madama Butterfly, il capolavoro che Giacomo Puccini affidò al teatro milanese per il suo battesimo. Era il 17 febbraio 1904, e il primo passo fu una clamorosa bocciatura. Un fiasco inatteso e tanto più cocente, in quanto riservato al compositore che aveva dato tre fra le più eseguite e ammirate opere del suo tempo, Manon Lescaut (1893), Bohème (1896) e Tosca (1900). Inaugurare la Scala con un'opera di Puccini non è una novità - in passato si è ricorsi a Bohème, ma soprattutto a Turandot, che nel suo fastoso corteo esotico esalta l'intero complesso artistico (orchestra, coro, mimi e figuranti). Butterfly, commovente dramma della seduzione, dell'abbandono e della morte di una piccola geisha è un'opera intimista (la solista è sempre in scena, il tenore scompare, salvo ritorno e fuga vigliacca nel finale, il coro ha pochi sprazzi e il poetico «a bocca chiusa» fuori scena) che va nel segno opposto alla prassi e alla liturgia fino ad oggi adottate nella tradizione inaugurale scaligera. La novità, su cui il tam tam mediatico odierno insiste, sta nell'aver scelto di Madama Butterfly la prima versione, quella appunto clamorosamente fischiata alla Scala, sollevando «grugniti, boati, muggiti, risa, barriti, sghignazzate, i soliti gridi solitari di bis fatti apposta per eccitare ancora di più gli spettatori», secondo quanto sintetizzò l'editore di Puccini, Giulio Ricordi, sulla sua rivista Musica e musicisti. In quella sede Ricordi informava i lettori del ritiro dell'opera e della restituzione dei diritti di rappresentazione alla direzione del teatro, decisione presa di comune accordo con il compositore e i librettisti, Luigi Illica e Giuseppe Giacosa. Lasciamo da parte il fatto non secondario che ricorrendo alla prima versione si segue la volontà dell'autore, che licenziò il testo definitivo dopo un lungo lavoro di lima (370 battute eliminate nel complesso, 126 a Brescia, 52 a Londra e 192 a Parigi) e tre decisive modifiche (in un successivo articolo ci soffermeremo in specifico sulle varianti musicali e testuali). Torniamo alle cause di quel fatale rovescio, nel quale ebbero un peso non secondario pettegolezzi, partiti e cammarille. Si parlò di vendette di colleghi anche se è difficile pensare a Pietro Mascagni, vulcanico livornese e compagno di studi al Conservatorio di Milano, stimolare imbeccate, solo perché geloso che un altro operista si occupasse di un soggetto giapponese (pochi anni prima Mascagni aveva scritto una delle sue opere più preziose, Iris). Altri tirarono in ballo un clima anti-toscaniniano che prese a bersaglio l'amante del maestro e protagonista dell'opera, Rosina Storchio (dal loggione si approfittò di un improvviso refolo che gonfiò il kimono per gridare che il soprano era in attesa di un figlio di Toscanini fatto che corrispondeva al vero). Ricordi aveva fiutato odor di prevenzione («Mai si videro tanti visi allegri, e gioiosamente soddisfatti come di un trionfo collettivo: nell'atrio del teatro la gioia è al colmo, e non mancano le fregatine di mani, sottolineate da queste testuali parole: Consummatum est! parce sepulto») e con ironia sottile paragonava il pandemonio scaligero alla guerra russo-giapponese. Il blocco navale di Port Arthur guidato dal famoso ammiraglio Togo risaliva a pochi giorni prima. «Sembrava di assistere ad una battaglia di tutta attualità come se i russi in serrati battaglioni volessero dare l'assalto al palcoscenico per spazzar via tutti i giapponesi pucciniani».
All'indomani del fiasco alcuni critici non faziosi esortarono il compositore a un lavoro di snellimento. Così avvenne. Se andarono perduti tesori lo scopriremo con l'ascolto diretto, quando si potrà dirimere il dubbio se la prima versione sia un'importante addenda o uno sfoggio musicologico.
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