Quante giornate nere, raccontando di accoltellamenti e terremoti, d'incidenti e di delitti passionali, e quante notti in bianco, passate nella Fortezza Bastiani di via Solferino, aspettando la notizia che non arriva mai...
Il deserto dei Tartari, figlio della monotona routine redazionale notturna, apparve nel 1940 e lo consacrò scrittore. Ma prima, e dopo, Dino Buzzati (1906-72), oggi considerato con Italo Calvino e Tommaso Landolfi uno dei grandi autori fantastici del nostro '900, fu un fantastico giornalista, sempre nel suo Corriere della Sera, in cui entrò nel 1928 come praticante e uscì da maestro solo pochi giorni prima della morte, nel '72, dopo aver ricoperto tutti i ruoli previsti dal mestiere: reporter, estensore, redattore (era un eccellente titolista, per dire), cronista erano i tempi in cui in via Solferino battevano tasti e questure gente come Dario Ortolani, Gilberto Altichieri e Orio Vergani - uomo-macchina, direttore-ombra (della Domenica del Corriere, fra il 1950 e il '63) e inviato... Si dice fosse speciale, Dino Buzzati.
Si dice che come romanziere Buzzati fu un inventore formidabile, mentre come giornalista si impose di non immaginare nulla, soltanto riferire. Ma non è proprio così. Anche quando fu rigorosissimo cronista di nera soprattutto, il settore che prediligeva prima del redattore c'era sempre l'autore. Con una propria scrittura letteraria, e uno stile unico. E anche un carattere.
Buzzati come carattere parliamo del lato professionale - fu persona complessa come poche. Precisissimo. Scrupoloso. Attentissimo. Esempio: Mario Cervi mi raccontava che solo Michele Mottola, leggendario caporedattore di via Solferino, fosse più apprensivo di lui. Un giorno Mottola aveva storto il naso di fronte a un titolo per un articolo riguardante dei «piccioni vandalici» che deturpavano i monumenti: secondo Buzzati, Mottola temeva una querela da parte dei piccioni. Mite. A proposito: è narrata una sola occasione in cui Buzzati s'infuriò. Fu quando l'amministratore del Corriere gli fece sapere che la presenza in ufficio del suo cane non era gradita. «Che male faceva il mio cane su quel divanetto?», chiedeva Buzzati, con il volto contratto dalla collera. Aziendalista fino allo stremo. Caso emblematico: Giovanni Spadolini, direttore del Corriere dal '68 al '72, uno che teneva sempre accesa la luce rossa fuori dalla porta dell'ufficio, un giorno fece aspettare Buzzati in corridoio per ore, quando era già devastato dal cancro: lui si sedette per terra ad aspettare, da eroico soldato del suo giornale.
Impenetrabile e distaccato, con quell'aria e quegli abiti da gentiluomo inglese, schivo e difficile, Buzzati si teneva tutto dentro. Ma quando si metteva alla Lettera 22 tirava fuori due cose: la precisione del cronista e la prosa alta dello scrittore. Un matrimonio felicissimo lui che si sposò così tardi fra Letteratura e Giornalismo.
Il giornalismo... Chi sa molto, se non tutto, di Dino Buzzati, è Lorenzo Viganò, giornalista a sua volta al Corriere (e amico per molti anni di Almerina, la vedova Buzzati, morta nel 2015) e curatore delle sue opere. Come la nuova edizione, in un unico volume, degli articoli più belli del Buzzati cronista per il Corriere della Sera e il Corriere d'informazione lungo un arco di oltre trent'anni: La «nera» (Mondadori), con nuovi pezzi rispetto all'edizione del 2002 (come per esempio Il rapimento Peugeot, del 1960, o Il giallo del bitter, del '62) e soprattutto un inedito apparato di immagini: le pagine del libro mastro di cronaca nera che Buzzati, neo assunto al Corriere, nel 1929, quando non c'era Internet, compilava registrando fatti e fattacci delitti, furti, rapine personalizzandoli con piccoli disegni, spesso ironici. O altre illustrazioni che lui stesso realizzava per i racconti che pubblicava su vari giornali durante il Ventennio. E anche pagine dei giornali dell'epoca e fotografie poco viste: ce n'è una di Pia Bellentani, sigaretta, gioielli e la celebre stola di ermellino, alla cena di gala del Grand Hotel Villa d'Este di Cernobbio, scattata la sera del 15 settembre 1948, poche ore prima che ammazzasse il suo amante, Carlo Sacchi.
Storie di amanti, di serial killer, di suicidi salvati da una telefonata, di delitti mediatici (come il «mistero di via Monaci», il celebre «caso Fenaroli» del 1958, che quando approdò alle aule dei tribunali appassionò l'Italia dividendola in colpevolisti e innocentisti, molto tempo prima di Cogne o di Garlasco), di stragi inconcepibili (leggete il pezzo su William E. Benson, che uccise trecento persone ma lo rivelò solo 24 anni dopo: Ma come ha fatto a resistere a tanto?, del 1961), di vendette (la sparatoria di Giuseppe Molinari a Busto Arsizio, nel '56), di sesso&sangue (consiglio il caso della spogliarellista slava accoltellata, siamo nel 1966, titolo: Milano Diabolik?), di tragedie (vale la pena rileggere il capolavoro giornalistico sui 43 «fratellini della morte», i bambini affogati davanti ad Albenga nel '47, un pezzo da brividi) e di sciagure, come Superga, l'alluvione del Polesine, la morte di Alberto Ascari a Monza o - per tornare a casa di Buzzati, nel Bellunese - il disastro del Vajont, 1963. Un articolo - titolo: Natura crudele - che contiene la più bella similitudine del giornalismo italiano («Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d'acqua e l'acqua è traboccata sulla tovaglia. Tutto qui. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri e il sasso era grande come una montagna e di sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi») e il peggior errore di valutazione in cui possa incorrere un cronista: non fu colpa, come si capì subito, della natura crudele, ma degli interessi umani che costruirono una diga dove non si doveva costruire...
Per il resto, Dino Buzzati quando scriveva di «nera» era unico, fra cronaca puntigliosa (i pezzi scritti a bordo delle pattuglie di polizia in servizio Milano, Le notti bianche del 777, nel 1965) e invenzione letteraria (la vicenda del sequestro e dell'omicidio della domestica per mano di Carlo Candiani, nel '51, che ispira il racconto Il delitto del cavaliere Imbriani, strepitoso).
Ed era unico grazie a un occhio clinico per i dettagli (il giornalismo è fatto di dettagli, veri o abbelliti poco importa, importa l'effetto finale). La capacità di farti vedere quello che stava vedendo lui, quando non c'erano i televisori. E l'arte di raccontare il fatto andando dentro il fatto, trascinandoci giù il lettore, quando ancora non c'era Chi l'ha visto?, ma con lo stesso risultato. Come dimostrò, altro pezzo da brogliaccio del miglior giornalismo, nel silenzioso reportage dal luogo dell'eccidio di Rina Fort, «la belva di via San Gregorio», Milano, anno di scarsa grazia 1946, titolo: Sono entrato nella casa della strage.
Con quelle carrellate cinematografiche che ti fanno vedere tutto: i due atroci orologi sul comò della camera da letto, i paesaggi a olio fatti in serie appesi alle pareti, la pappa del cane non consumata, «non un libro in tutta la casa», i vestitini dei tre bambini massacrati, il fuciletto senza canna abbandonato nell'angolo del bagno, la pozza di sangue ormai secca, e il battito di una goccia nel lavandino della cucina, «goccia rimasta così», «tic, tic, tic», «senza un attimo di sosta a partire da allora».
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.