«C’è tanta grande musica soffocata da troppo rap»

«C’è tanta grande musica soffocata da troppo rap»

Impossibile star dietro alle mille bizzarrie canore di Al Jarreau, a quei suoi incredibili salti di registro vocale che escono dai confini del jazz per addentrarsi nel rock (con Paul McCartney), nel pop italiano (a Sanremo lo scorso anno coi Matia Bazar) persino nella disco in coppia con Eumir Deodato, con cui il 2 luglio aprirà la tournée italiana dall’Ippodromo del Galoppo di Milano. Mette in saccoccia Grammy in tutti i generi musicali, com’è riuscito a fare solo Michael Jackson e si diverte a irridere le categorie stilistiche che tanto piacciono ai critici paludati.
Di solito il jazz è considerato musica nobile rispetto al pop, lei invece si addentra con grande rispetto nei territori del pop: lo fa alla ricerca del successo commerciale?
«Non ho mai badato al successo. Io nasco come cantante jazz ma il pop e il rock sono un meraviglioso linguaggio universale dei tempi moderni».
È vero che negli anni Settanta formò una rock band?
«Sì, e commercialmente fu un disastro. Lo feci soltanto per sperimentare, un po’ come faccio oggi con le improvvisazioni canore».
Come le venne l’idea?
«A metà anni Sessanta cantavo all’Half Note di San Francisco in quartetto con il grande George Duke al piano. Io avevo un microfono e nulla più, avevamo un repertorio strettamente jazz ma venivano ad ascoltarci tutti gli hippy dei dintorni, così decisi di ricambiarli in qualche modo».
Invece oggi com’è la situazione della musica in generale?
«Il mercato è dominato dalle radio e alla radio in America il 90 per cento del tempo si ascolta rap. Tutto quel rap impedisce di crescere al jazz, al blues o al country. Non parliamo poi della musica classica. Chi ascolterà più Bach o Cecilia Bartoli? Ma oggi la musica va dove va il denaro. La stessa situazione si verifico tra gli anni ’60 e ’70 con il rock».
E come si reagisce a questa situazione?
«Io non ce l’ho con il rap, che è espressione della musica urbana nera moderna, dico solo che non va bene il monopolio. Quindi bisogna diversificare e io cerco di fare la mia parte».
Lei spazia dai classici del jazz a Bob Dylan: chi sono i suoi artisti di riferimento?
«La mia base di partenza è sempre l’improvvisazione, anche nelle canzoni più semplici mi lascio andare all’estro del momento o allo “scat”. Ma tra i miei maestri metto Jon Hendricks, del trio Lambert Hendricks & Ross, i migliori nel mettere in versi le improvvisazioni dei grandi strumentisti jazz. Lo definirei il Count Basie della voce, e poi Johnny Mathis, Ella Fitzgerald e Miles Davis, la cui tromba mi ha influenzato moltissimo e di cui eseguo molti temi. Poi ci sono gli artisti rock che mi hanno influenzato».
Chi?
«Bob Dylan. Chi dice che ha una voce sgraziata non ha capito nulla. Lui ha un canto e dei testi che arrivano dritti all’anima anche se non è bello da sentire. E poi la splendida voce di Joni Mitchell e Laura Nyro, le atmosfere vocali dei Beatles, Elton John che mi fa letteralmente impazzire per la sua comunicativa. Insomma se ascolti il vero rock ti entra dentro e non ti molla più».


Lei è un’eccezione anche in questo: di solito il jazzman snobba chi fa rock.
«Io penso solo in termini di buona musica. C’è anche tanto cattivo jazz o pseudojazz in circolazione. Io mi sono divertito anche a Sanremo con i Matia Bazar, un gran gruppo italiano, di cui dovete andare fieri».

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