Il cancro ha piegato le ali all’angelo degli anni Settanta

«È una storia d’amore. E non so come interpretarla, da solo», aveva detto Ryan O’Neal, lasciando affranto l’ospedale di Los Angeles, pochi giorni fa, dopo aver finalmente sposato il suo angelo biondo, l’attrice e compagna di vita Farrah Fawcett, morta ieri all’età di sessantadue anni, persa la sua lunga battaglia contro il cancro al colon. Una brutta bestia, che dal 2006 non lasciava in pace la quintessenziale poster girl, una che stava sui manifesti come il sole su un cielo azzurro, semplice e semplicemente bellissima. E adesso che questa icona dei Settanta, anni vintage per i più giovani (ma anni piacevolmente tosti per i più attempati), è volata in cielo insieme ai suoi luminosi capelli biondi (e tutte, quando lei spopolava con le Charlie’s Angels, dall’alto delle sue gambe snelle, dal parrucchiere chiedevano d’essere spettinate come lei, proprio com’era sui poster: giovane, radiosa, maledettamente naturale), l’unica cosa che resta è la sua vicenda amorosa.
«Ma è solo cinema!», dicono a volte, sprezzanti, quelli che non capiscono come s’intreccino, nelle vite dei divi, le due cose. E in modo potente, quasi fatale. La storia di Farrah, peraltro, è stata raccontata da lei in persona, in un documentario di due ore, intimo e struggente, girato e prodotto dalla sua amica Alana Hamilton (l’ex moglie di Rod Stewart), dove l’attrice e modella raccontava, in onda sulla Nbc, il suo calvario tra i dottori, le sue domande senza risposta, il suo itinerario sperimentale laggiù in Germania, tra i supermedici, che l’hanno usata come cavia per una terapia sperimentale del tutto inutile. Chemioterapia, laserterapia, su e giù tra Los Angeles e l’ospedale tedesco, dove lei vomitava, ma insisteva a farsi riprendere, perché «this is what cancer is», «il cancro è questo».
Sarebbe iniquo, però, indugiare sugli ultimi anni dell’amarezza e dello spavento: di talento ne aveva, Farrah, oltre la chioma superba, che ogni industria cosmetica desiderava sponsorizzare. E, volendo parlare di apparenza iconica, quella che conta quando si ricordano i divi, come ignorare quelle sue pose da pin up in costume da bagno su un calendario venduto, per lei, solo perché era lei, in dodici milioni di copie? E se, oggi, nessuno rammenta il suo primo marito, Lee Majors, ma ognuno conosce vita, morte e miracoli della sua love story con Ryan O’Neal (al quale ha dato Redmond, un figlio oggi ventiquattrenne e disturbato come soltanto i figli delle celebrità sanno essere), il «merito» è di Farrah. O, meglio, di Jill Munroe, la Charlie’s Angel inguainata in scintillanti tute pop, a zampa d’elefante, così aderenti che non si capiva come lei potesse compiere acrobazie tremende, senza scucirle, mentre volava su una jeep, o saltava da un camion in corsa. Non c’erano soltanto svagatezze tv, nella carriera della Fawcett: nel 1984 interpretò così bene il ruolo d’una donna, picchiata tra le mura domestiche, nel film televisivo The Burning Bed (Il letto che brucia), da meritarsi una nomination (per l’Emmy, un premio tv molto ambito negli Usa). Interpretò in modo talmente realistico la parte d’una casalinga, alla quale il marito dette fuoco, mentre dormiva (da qui il titolo e la storia di cronaca è vera), che tutti pensarono male di Ryan. E invece, tra i due è stato amore, vero e pacifico. «Ogni volta che le ho chiesto di sposarmi, lei m’è scoppiata a ridere in faccia», ha spiegato O’Neal (la cui figlia Tatum, adesso, magari si pentirà d’aver dato filo da torcere a Farrah) a quanti gli domandavano come mai non avesse «regolarizzato» prima. Di fatto, era allergica ai legami stabili la signora O’Neal, in articulo mortis. Ci voleva la morte, per sancire l’unione terrena tra i due.
«I’m happy. I’m ready», ha scritto su un biglietto la Fawcett, consegnandolo al marito nel giorno della Festa della Mamma. «Sono contenta. Sono pronta». E Corpus Christi, Texas, si chiama la città in cui è nata la star...
Strano che stiamo qui a rendere omaggio, tutto sommato, a una meteora del sistema divistico: la modella dai capelli di platino, scalati a dovere, non ha lavorato poi molto.

Sì, l’hanno diretta Stanley Donen (Saturn 3, 1980), Alan Pakula (Ci penseremo domani, 1988), James Orr (L’uomo di casa, 1995), col quale convisse qualche anno; Robert Duvall (L’apostolo, 1997), Robert Altman (Il dottor T e le donne, del 2000): artisti non da poco, dunque. Però Farrah rimane nel cuore della vecchia gioventù per quello smalto indelebile, che metteva sulla vita di chi ne ha amato l’aura da ragazza per sempre.

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