Cultura e Spettacoli

La "Carmen" messicana svela il lato cupo di Bizet

Alle Terme di Caracalla la regista Valentina Carrasco ambienta l'opera lungo il confine con gli Usa, fra violenza e miseria

La "Carmen" messicana svela il lato cupo di Bizet

C'era una volta la Carmen. Ovvero: c'era una volta l'opera delle nacchere, dei ventagli e dei garofani rossi. Sarebbe meglio dire c'era una volta l'opera: c'era cioè l'uso di allestire un melodramma così come è stato concepito dal suo autore. Il che sembrerebbe ovvio. Al contrario: oggi assistere ad un allestimento tradizionale (attenti ad usarlo, questo aggettivo: per alcuni equivale ad una parolaccia) è diventato sempre più raro. L'uso di cambiare ad un'opera l'epoca storica, l'ambientazione, i costumi, da eccezione scandalosa è divenuta, ormai, prassi comune. Il che non rappresenta necessariamente un male: per quanto rischioso, in mano a registi geniali come Michieletto o Carsen si dimostra, anzi, uno straordinario mezzo di approfondimento dei contenuti stessi dell'opera. Ad un patto, però. Che si possegga il talento sufficiente per farlo. E che lo si faccia al servizio della musica, e non (come invece spesso accade) del narcisismo autoreferenziale del regista.

Neppure la Carmen, tornata con successo alle Terme di Caracalla in Roma, fa eccezione alla nuova regola. Dalla romantica Spagna di metà '800 la regista Valentina Carrasco la trasferisce nel crudo Messico d'oggi, al confine con gli Stati Uniti, trasformando i galanti dragoni originali in corrotti doganieri che trafficano in droga, ricacciano indietro (molestandoli) spauriti clandestini, e palpeggiano le seducenti sigaraie originali, qui scalcagnatissime operaie. La pittoresca taverna di Lilas Pastia è diventata un misero dancing with nude girls, brulicante di sfruttatori e prostitute che, invece del flamenco, ballano la lap dance. Mentre la sfavillante corrida finale s'incupisce in un messicano, macabro Dias de los muertos, popolato di teschi e scheletri.

Insomma: detto così, un vero sfacelo. E invece sorprendentemente - lo spettacolo funziona. Come dimostrò una rivelatrice direzione di Leonard Bernstein, al disotto della sua patina effervescente e scintillante la vera natura di Carmen si rivela drammatica: tutto il colore locale di cui è da sempre abbigliata (nacchere, ventagli e garofani rossi, appunto) ha finito per diventare folclore, velando l'altra sua componente, che è malinconica, tormentata, cupa, perfino. Così va a finire che lo spettacolo della Carrasco (ripreso da Lorenzo Nencini) puntando ad una attualità figurativa perfino sfacciata, riesce a sottolineare la modernità più profonda dello spartito. E almeno finché la modernità scenica incarna quella musicale, l'effetto è garantito. Nella recitazione dei cantanti, innanzitutto: con la convincente protagonista Veronica Simeoni, buona interprete canora e attrice mai sopra le righe, mai convenzionale; col credibile perché disinvolto quartetto dei contrabbandieri Mazzola-Pennisi-Patti-Nardis, un piacere per gli occhi oltre che per le orecchie; nelle indovinate luci di Peter van Praet e nelle colossali videoproiezioni che fanno delle rovine di Caracalla ora le gole d'un canyon, ora i volti presidenziali del Monte Rushmore. Solo il Don Josè di Saimir Pirgu sembra più prevedibile, ma è riscattato da una resa vocale di buona lega.

Senonché, appena la regia si fa prendere la mano, ecco arrivare le forzature inutili, inutilmente compiaciute. Il transessuale che gioca con un allusivo serpente è tutto da dimenticare; le coppiette fluid-gender che illustrano l'habanera sono peggio che immotivate: sono false. E proprio mentre l'orchestra narra la sublime leggerezza del toreador, ecco trascinato in scena, con stridente incongruenza, il cadavere di un clandestino dentro ad un sacco di plastica. In un paio di casi la Carrasco si macchia di veri e propri tradimenti: che c'entra la dolce Micaela descritta dallo spartito (Mariangela Sicilia, molto applaudita) con quella Calamity Jane che, ad una pacca sul sedere, replica con una ginocchiata al basso ventre dell'incauto molestatore? E che parentela hanno i candidi bambini musicati da Bizet, con quei teppistelli armi in mano, manco fossimo dalle parti di Gomorra? Qui semplicemente la musica va da una parte, la regia da quella opposta. Per fortuna dello spettacolo si tratta solo di dettagli, che non ne inficiano la resa complessiva, tesa, asciutta e coinvolgente, anche grazie all'Escamillo di Luca Micheletti, aitante di figura e svettante di voce (la migliore in scena), e sostenuta da una direzione orchestrale di Jordi Bernàcer più incisiva nei momenti d'inquietudine sotterranea che in quelli di esplicita spensieratezza. Così, alla fine, si dimenticano volentieri nacchere e garofani.

E gli unici ventagli in funzione restano quelli in mano agli spettatori più accaldati.

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