«Ma che so tutte ste canne?» chiede Monica Vitti al ricco macellaio, suo promesso sposo, un certo Amleto Di Meo, affacciandosi al balcone di un villino residenziale. «Nun so canne! È 'na precisa caratterizzazione geometrica. Così ce stava scritto sul progetto della casa», risponde il buzzurro arricchito, tra bande verticali in maiolica e canne d'organo in metallo. «Ah, vabbè!», chiude lei, rassegnata. Scrivevano Age&Scarpelli, con la precisa volontà di dissacrare le pretese burine dei nuovi cafoni emergenti all'epoca. È una delle scene più divertenti di Dramma della gelosia (1970), il film di Ettore Scola dove la Vitti, che interpretava un'Adelaide indecisa tra Giancarlo Giannini e Marcello Mastroianni, alla fine sposa un terzo uomo, il macellaio (Hércules Cortés). Il quale avrà pure a che fare coi quarti di bue e la coratella, però capisce che il suo villino colorato, con le superfici curve e il soffitto del soggiorno increspato da cilindri concentrici, aggiunge fascino alla sua grottesca persona.
Il villino in questione (a lungo chiamato «villa del macellaio»), che sorge dalle parti del quartiere Nomentano, a Roma e precisamente in via Giuseppe Marchi, dov'è ora l'Ambasciata di Giordania, è una costruzione realizzata, tra il 1969 e il 1970, da Paolo Portoghesi con Valerio Gigliotti, su commissione dell'imprenditore pugliese Pasquale Papanice, il quale amava il cinema e volle dedicare alla Settima Arte tale simbolo del postmoderno. Un gioiello dell'architettura italiana. E un edificio molto pubblicato, anche se oggi non è più quello d'un tempo e assai gettonato dal cinema, che ha continuamente bisogno di luoghi bizzarri e fascinosi per ambientare le sue storie. Così, quando Edwige Fenech si aggira nuda nel bagno di Casa Papanice, tra le piastrelle di ceramica di colore blu e senape, nel film di Sergio Martino Lo strano vizio della signora Wardh (1971), dove un maniaco sessuale la prende di mira, la vicenda assume un certo tono. La densità dello spazio, infatti, che si riferisce alle pluralità generatrici del miglior barocco, incide non poco sullo svolgersi della narrazione. Anche se, allo spettatore attento, non sfugge che nei film con la Vitti e la Fenech, sempre lo stesso salotto s'inquadra: quello della «villa del macellaio»,appunto... Dettagli da cinefili, che tuttavia inquadrano una fissazione con l'estetica evocativa di Casa Papanice. Non a caso Quentin Tarantino, adoratore dei film di serie B, conosce Lo strano vizio della signora Wardh, citandone, qua e là, scene e ambientazioni. C'è poi, a proposito di «B movies» ambientati a Casa Papanice, La dama rossa uccide sette volte (1972), di Emilio Miraglia, con Barbara Bouchet e Marina Malfatti: altra location da gotico all'italiana, con modernariato lussuoso e oggetti di puro design, imbrattati di sangue.
«La Casa Papanice fu un atto di protesta contro il grigiore delle palazzine moderne, che sorgevano una accanto all'altra, come una catena, a chiudere e neutralizzare lo spazio delle strade. Attraverso il suo rivestimento di maiolica, l'edificio dialogava con la luce del cielo e il verde degli alberi, che furono conservati gelosamente al loro posto. Per me il postmoderno doveva essere la fine del proibizionismo, la libertà di esprimersi per tutti i popoli, senza dimenticare la propria identità. Purtroppo le cose sono andate diversamente», dice l'archistar Portoghesi, il cui libro Roma/amoR (Marsilio) è appena uscito.
Ma oggi, nella Roma grillina che non cura gli alberi, ma li taglia direttamente, se no cadono sulla testa dei passanti? Oggi, che la Capitale è diventata un suk fuori controllo, dove tutti fanno tutto senza alcun rispetto per la Città Eterna, che ne è di Casa Papanice? «L'Ambasciata di Giordania ha tolto l'organo sul tetto e le canne di cui parlava la Vitti. Del resto, i Beni culturali non l'hanno messa sotto tutela e su Facebook qualche cittadino giordano si chiede perché la Giordania abbia, a Roma, un'ambasciata così brutta...», si accora Edmondo Papanice, nipote dell'imprenditore edile che incaricò Portoghesi. In occasione del 50esimo anniversario della costruzione, il 26 ottobre l'erede inaugurerà al Castello Aragonese di Taranto la mostra itinerante L'Italia del boom fra mura d'artista e fotogrammi d'autore, a giugno premiata al Festival del cinema italiano di San Paolo in Brasile, per tenere viva la memoria di un legame importante fra uno dei simboli dell'architettura del Novecento e il nostro cinema. Così fotografie di Oscar Savio, locandine dei film, immagini in bianco e nero racconteranno un'epoca in cui la famiglia andava dissolvendosi, ma amava ritrovarsi in interni borghesi bene arredati, dentro villini signorili possibilmente all'avanguardia, con mobilio nuovo e spazi avveniristici.
Allo stato attuale, nel degrado di Roma, dove il processo utilitario ha sostituito quello estetico, Casa Papanice e quel che resta di essa, ricorda che è esistito un cinema di genere ben fatto, pronto a sposare valori artistici già nei set d'autore.
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