Cultura e Spettacoli

Catarsini, la guerra civile "dipinta" da chi la visse

Gli anni dal 1943 al '45 in Lucchesia, teatro di paure, atrocità, incertezze. E scelte politiche dettate dal caso

Catarsini, la guerra civile "dipinta" da chi la visse

Nel 1943-45 l'Italia venne scaraventata indietro nel tempo e di colpo assunse di nuovo l'aspetto di Paese diviso in fazioni avverse, impegnate in battaglie ed eccessi barbarici, come in un ritorno al Medioevo. Non è stata ancora scritta un'analisi psicologica attendibile dei due anni in cui il popolo italiano si spaccò tra nord e sud, tra fascisti e partigiani, tra alleati e tedeschi. È certo però che la scelta non si basò sempre su motivazioni ideologiche ragionate, ma più spesso su fobie, vertigini, perdita di identità e, ancora più spesso, circostanze o coincidenze: «Per molti dei miei coetanei era stato solo il caso a decidere da che parte dovessero combattere; per molti le parti ad un tratto si invertivano, da repubblichini diventavano partigiani o viceversa; da una parte o dall'altra sparavano o si facevano sparare; solo la morte dava alle loro scelte un segno irrevocabile» (Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno).

Anche Alfredo Catarsini (1899-1993) spiega bene che i più, in realtà, non scelsero. Fu la geografia a decidere per loro: chi stava nel Sud già liberato fu felice di rimanervi, chi stava al nord si sottomise alla neonata Repubblica Sociale Italiana in attesa della «immancabile vittoria» fascista o della ben più probabile avanzata degli eserciti alleati. Chi viveva nella fascia di mezzo al fronte, come nel romanzo di Alfredo Catarsini Giorni neri (uscito nel 1969, ora ripubblicato da La nave di Teseo) - dipendeva spesso dal caso e dalle circostanze. Solo una minoranza decise di schierarsi attivamente da una parte o dall'altra.

Quelli che stettero con Mussolini erano sovente spinti, più che dalla fede nel fascismo, dal senso dell'onore, dal rispetto dei patti, della «patria tradita», dall'anticomunismo e dal disprezzo per le democrazie inculcato loro per vent'anni, a testimonianza che l'educazione del regime non era stata vana. Basti leggere il più bel romanzo sulla guerra civile vista da un giovane che aderì alla RSI, A cercar la bella morte, di Carlo Mazzantini, pubblicato nel 1986. Nella Resistenza l'idea di patria era più debole, specie se confrontata con quella di altri Paesi: era inevitabile, visto che per i partigiani cresciuti nel fascismo la patria era identificata con il regime fascista. Quelli che in seguito saranno genericamente indicati come antifascisti spesso erano tali in quanto odiavano i tedeschi, oppure amavano la monarchia, o sognavano una «dittatura del proletariato» sul modello sovietico: solo una minoranza si batteva per la libertà e basta.

Il contributo militare che questi uomini portarono alla vittoria fu marginale: la Resistenza ebbe soprattutto valore morale e simbolico, perché significò che parte degli italiani si schierava, armi in pugno, contro un'ideologia che mirava a sottomettere l'intero pianeta ordinandolo sulla base di una gerarchia razziale. Le loro motivazioni erano fortissime perché, non educati né alla libertà né alla democrazia, le avevano scoperte e valorizzate da soli. E, conoscendole in autonomia, spesso credettero con ingenuità che il comunismo già dittatoriale ovunque si era affermato potesse rappresentarle.

La maggioranza del popolo voleva semplicemente «Pane, pace e libertà», come qualcuno scrisse su un muro di Milano.

Scritto nel 1968-69, molto prima che la storiografia delineasse più correttamente gli eventi della guerra civile, il libro di Alfredo Catarsini centra l'obiettivo di raccontare la tragedia di una lotta crudelissima fra uomini che, fino a poco prima, erano vissuti in pace e in vicinanza. È una storia di partigiani, fascisti, tedeschi, e soprattutto di sfollati, povera gente che la guerra ha privato di ogni cosa, sicurezze, cibo, case, padri e figli. Giorni neri è la versione narrativa, e quindi tanto più suggestiva, di un magnifico saggio di Miriam Mafai, Pane nero, uscito nel 1987.

Catarsini era un pittore, un eccellente pittore, che oggi viene riscoperto e valorizzato, e adesso scopriamo che era anche uno scrittore capace di raccontare i giorni orribili della guerra civile con maestria. Nella nota introduttiva si chiede se è riuscito «a dare un carattere proprio ad ogni personaggio»: ci è riuscito benissimo, delineando il carattere comune, cioè l'ostinata volontà di sopravvivere fra passioni, ricatti, tradimenti, paure, fame con cui fare i conti ogni giorno.

Ci riesce con l'arte del pittore, con la passione per il dettaglio schizzato rapidamente confrontate il testo con i disegni che lo accompagnano, qua e là, e vedrete che si somigliano: pennellate di scrittura rapide e sicure, ricche di parole che a molti sembreranno dialettali, e che invece vengono da un antico italiano che si è conservato solo in Toscana, e sempre meno: per esempio nella pagina che apre il racconto, «bianca come una saponata».

E troviamo anche, fondamentale, il problema sociale di sempre: «Il ricco non vuol capire la lingua del povero», dice Nando, il protagonista che vi rimarrà nella memoria, «Lo so, lo so che corpo pasciuto non crede l'affamato».

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