Celle putride, topi voraci e guardie "infernali". Ecco le prigioni di Hoxha

Una testimonianza (inedita) della dittatura comunista in Albania tra gli anni '60 e '70

Celle putride, topi voraci e guardie "infernali". Ecco le prigioni di Hoxha

Torniamo adesso al nostro tema centrale, il cesso. L'odore prevalente nella cella è l'urina, che non si sa precisamente da dove venga; a parte questo, c'è un altro olezzo soffocante, provocato dalla mancata circolazione dell'aria. L'interno della cella è formato da soli quattro angoli di mura, nient'altro. Nel corridoio, tutto in cemento, si trovano la coperta o le coperte piegate, la tazza del cibo, la razione del pane, qualche sacco con i viveri, se sono permessi, qualche sacco di vestiti di ricambio, due o tre pacchetti di sigarette (in cella non sono consentite ad eccezione di tre, che costituiscono la razione giornaliera). È autorizzata solo la brocca dell'acqua. Nell'angolo della cella, con il permesso del giudice istruttore - e solo con il suo permesso - può trovarsi una borsa di gomma elastica (di quelle che si usano per l'acqua calda), da trasformarsi in recipiente per urinare la notte oppure quando la porta è chiusa con la sbarra.

La borsa è un oggetto moderno, introdotto recentemente, e la famiglia del detenuto può comprarla dietro la prescrizione del medico in farmacia. I vecchi contadini o i malati, se ottengono il permesso, possono ricevere dalle loro famiglie un recipiente di terracotta oppure una zucca dissecata e vuota, con un tappo di mais come chiusura, per poter urinare di giorno. Ma questo, si capisce, è un privilegio riservato solo ad alcuni; la maggior parte delle celle non dispone di un tale mezzo di soccorso.

Durante la giornata puoi sentire a volte timidi colpi, poi contenuti, più forti, poi disperati calci alla porta, ma senti pure anche le riposte delle guardie:

«Non bussare!»

«Non bussare alla porta!»

«Vengo là e...»

«Ti metto le manette!»

«Fallo di là, mascalzone!»

Di nuovo le richieste gementi:

«Caporale Velo, ti bacio i piedi!»

«Caporale Galipi, che io ti mangi la merda».

«Salvami!»

«Mi vergogno agli occhi degli altri!»

«Sto per finire!»

«Caporale Velo, che io sia il tuo genero!» grida un furfante per scherzo (si sa che Velo ha una figlia nubile).

Velo Hoxha, all'inizio, quest'ultima invocazione la prende per una preghiera e nel sentirla assume un'aria benevola, ma, da quando ha capito la verità, s'infuria di brutto. Alcuni detenuti, più scaltri e coraggiosi degli altri, quando si trovano in difficoltà cercano un qualche buco nel legno (se la cella lo consente), si sdraiano per terra e urinano sotto il pavimento: ed ecco da dove viene l'inestinguibile odore d'urina che ti segue dappertutto. Come farebbe ad evaporare?

***

Le due guardie di turno, a parte la custodia dei detenuti, avevano il compito d'accompagnare e riportare gli arrestati di ritorno dall'istruttoria, di fare il controllo dei cibi che venivano inviati una volta al mese dalle famiglie, e anche di far uscire i detenuti due volte al giorno per i loro bisogni personali. Un noioso e affaticante rituale, accompagnato dalla sinfonia delle chiavi, dei catenacci e delle porte.

I cessi, presso le celle di Koçi, si trovavano in mezzo alla coda della lunga elle. Erano due, senza un muro a separarli, e là i prigionieri facevano i loro bisogni. C'erano anche due rubinetti con l'acqua fredda, per bere e per lavarsi. Per quasi due anni, il tempo durante il quale io rimasi in completo isolamento, non ricordo di aver fatto un solo bagno, né d'inverno, e neppure d'estate.

I cessi erano senza porte e nessuno riusciva a coprirsi, così eravamo costretti a sedere all'aperto, nudi. Esisteva poi una categoria speciale di accusati, detenuti durante l'istruttoria. La direzione della Sigurimi di Stato, anche quando erano in isolamento, imponeva loro sul capo un elmo di ferro, legato con una cinta, in modo che non potessero mai toglierselo di testa; a questo scopo una guardia era addetta alla sorveglianza speciale. Questa guardia era sempre davanti a te, ti controllava fino a quando non ti eri liberato nel cesso.

Fra questi angeli custodi infernali ricordo Sajram Xhelo, atroce e sfacciato; Galip Siçoku, un nano alto cinque palmi, da Corizza; Skender Sulollari dalla regione di Devoli (o forse da Maliqi); Velo Hoxha da Valona in Laberia; un certo Jonuz, non di cattivo cuore; Dushan Haxhiraj, uno che rubava i nostri viveri e che più tardi fu sorpreso con le uova delle galline del comando; un certo Qibir, forse da Saranda; un tale Sido, da Fusha di Corizza; quello che si occupava della imposizione dell'elmo e faceva la guardia al cesso era uno zingaro di nome Fredi, molto scuro di pelle e dal bianco degli occhi molto accentuato, un personaggio che metteva paura a molti, ma che non infieriva.

Il tempo concesso per uscire, sbrigarsi nel cesso e rientrare era di dieci minuti, incluse tutte le azioni necessarie e indispensabili.

A complicarci la vita c'erano altre guardie, che nel frattempo non ci perdevano d'occhio un secondo, in modo da renderci pressoché impossibile anche solo urinare.

Quanto ai cessi, erano luridi e non solo. Dai fori dei vasi uscivano grandi topi da latrina, che giravano indisturbati per i corridoi delle celle, mordendo e divorando i cibi che erano stati inviati dalle famiglie dei prigionieri, facendo a pezzi e sbriciolando vestiti e sigarette.

Il momento più disgustoso, per chi era in isolamento, arrivava alla distribuzione della razione di pane: a cominciare dal cucchiaio usato per la minestra, che rimaneva tutto il giorno sul pavimento del corridoio, dove passeggiavano i grandi topi e pure un gatto, pronti ad assaggiare prima di noi il contenuto delle nostre tazze.

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