Se a scuola, ammesso che lo si faccia, i professori insegnano e i ragazzi studiano la storia dell'arte in un certo modo, lo dobbiamo soprattutto a un signore molto elegante, molto dotto, molto cocciuto. Si chiama Johann Joachim Winckelmann (nome cui ogni studente con riflesso pavloviano fa seguire la parola-chiave «neoclassicismo», di cui in effetti fu il maggiore teorico), tedesco di Stendal, in Sassonia, la cui vita attraversò un buon pezzo di Settecento, dal 1717 al 1768. E proprio i tre secoli dalla nascita sono l'occasione di una serie di celebrazioni nel mondo, di cui la prima, per tempistica e per qualità, è la grande mostra - dal titolo forse un po' troppo didascalico - Johann Joachim Winckelmann. I «Monumenti antichi inediti» - che si inaugura domenica al m.a.x. museo di Chiasso. La cui specializzazione, per non usare la parola mission, è appunto il design e la grafica, anche storica. Ed ecco perché siamo qui.
Comunque, parlavamo di un uomo molto elegante, molto dotto, molto cocciuto. Bene. Il fatto che fosse elegante, e non è un caso, visto che Winckelmann fece coincidere la propria vita con l'ideale classico di Bellezza, lo dimostra un celebre ritratto (in mostra c'è una bella copia primonovecentesca) di Anton von Maron: Winckelmann è raffigurato avvolto da una vestaglia cremisi, pelliccia di lupo russo e turbante, compostamente intento a scrivere in uno studiolo neoclassico. Poi, che fosse colto, beh, basti ricordare gli eccellenti risultati alle università di Halle e di Jena, al suo ruolo di soprintendente alle antichità di Roma e al fatto che leggesse, e scrivesse, in sette lingue. In ordine di confidenza: tedesco, greco, latino, italiano, inglese, francese, ebraico. Quanto al fatto che fosse un perfezionista, è sufficiente citare la volta che, a sprezzo di parecchio denaro, fece ristampare un suo libro perché si era accorto, troppo tardi, di un errore in una parola italiana del testo.
Tutto questo, e cioè il suo ideale di Bellezza, la passione e l'originalità che mise nel suo lavoro di archeologo e storico, e il rigore che segnò il suo studio del mondo classico e dell'arte antica, è raccontato - con precisione ed eleganza che sarebbero piaciuti allo Winckelmann - nella mostra di Chiasso, curata da Stefano Ferrari e Nicoletta Ossanna Cavadini. Un anno di lavoro, quattro nazioni impegnate tra prestiti e collaborazioni (oltre la Svizzera, la Germania naturalmente, l'Italia che è sempre stato il Paese più attento all'opera e all'eredità di Winckelmann e la Francia, che porta qui, dalla Biblioteca universitaria di Montpellier, alcuni rari manoscritti), cinque sale, un allestimento inappuntabile e un percorso incentrato su una delle sue opere più importanti, l'ultima pubblicata prima che fosse assassinato a Trieste nel 1768 (un cuoco lo accoltellò per rubargli alcune medaglie di valore). Si tratta dei Monumenti antichi inediti, una grandiosa opera illustrata che contiene le riproduzioni «scientifiche» delle antichità di Roma. Insomma, per la prima volta in maniera così rilevante, Winckelmann accompagna le descrizioni dei «monumenti» - che non sono solo architetture e statue, ma anche bassorilievi, gemme, vasi e oggetti d'arte - con le immagini grafiche degli stessi. Ed è bello vedere, affiancati, le illustrazioni e i reperti archeologici. Qui ce ne sono tre, provenienti dal Museo archeologico di Napoli, tra cui lo strappo di un affresco di Pompei. Ed ecco quindi il cuore, e il fascino, della mostra: i curatori hanno sfascicolato, infilato nei passepartout e appeso alle pareti tutte le 208 tavole tratte da una copia dell'editio princeps del 1767 dei Monumenti (per la cronaca: il volume è stato acquistato sul mercato antiquario dagli «Amici del m.a.x. museo» per una cifra attorno ai 5mila euro). Benvenuti nel mondo antico.
Winckelmann per anni studiò e catalogò le opere d'arte del mondo dell'antica Roma che ebbe modo di ammirare nelle collezioni della sua cerchia di amici, primo fra tutti il cardinale Alessandro Albani, del quale fu bibliotecario, ma anche nel corso di numerosi viaggi nel Lazio, a Firenze, Napoli, Caserta, Paestum, Pompei, che all'epoca era quasi sconosciuta... Poi scelse quelle che più avevano catturato la sua attenzione. E quindi commissionò il disegno del «monumento» e la realizzazione delle lastre per l'incisione (qui ci sono anche una ventina di matrici in rame) a un gruppo di artisti. Che pagò di tasca propria. Infatti nel frontespizio dell'opera, sotto la data «Roma MDCCLXVII», spicca un orgoglioso «A spese dell'autore»... Già, gli artisti. Chi realizzò le tavole? In realtà non si sa. Disegnatori e incisori sono rimasti anonimi, come anonimo, cioè «algido», impersonale, il più possibile scientifico, doveva essere il tratto delle illustrazioni. Dei loro nomi si è persa la memoria. Tranne di un pittore. Si chiamava Giovanni Battista Casanova (fratello del più famoso Giacomo) e realizzò una decina di disegni. Ma poi fu licenziato da Winckelmann. Non concordavano sull'idea di Bello.
Casanova aveva una concezione dell'arte troppo - diciamo così - personale. Mentre per Winckelmann, come è noto, «l'unica via per noi di diventare grandi e, se possibile, insuperabili, è l'imitazione degli antichi». Il resto era solo corruzione e declino.
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