Cultura e Spettacoli

Che disastro se l'Italia diventa una "Likecrazia"

Daniele Capezzone analizza il consenso in rete e i suoi effetti (nocivi) sulle scelte dei partiti

Che disastro se l'Italia diventa una "Likecrazia"

Comunicazione e politica sono da sempre indissolubilmente intrecciate tra loro e, con l'evolversi degli strumenti di comunicazione di massa, anche la politica si è adattata mutando il proprio linguaggio e con esso le forme e modalità di approcciarsi a cittadini ed elettori.

Se la radio e poi la televisione rivoluzionarono la politica facendola diventare nel Novecento un fenomeno di massa, negli ultimi anni l'avvento dei social network ha sancito l'inizio di una nuova stagione che Daniele Capezzone nel suo ultimo libro definisce Likecrazia (Piemme, pagg. 200, euro 16,50) «lo show della politica in tempo di pace e di coronavirus». E in effetti, a giudicare dalle dinamiche che regolano la politica nostrana, il consenso social è diventato ogni giorno di più un metro di giudizio per orientare le posizioni e le dichiarazioni dei leader. Le dinamiche del consenso online hanno fanno tornare di attualità un quesito mai sopito che interessa direttamente il mondo della televisione: è la politica utilizzare un registro e contenuti di un certo tipo perché lo vogliono gli elettori, oppure sono i cittadini che avvallano temi e posizioni popolari perché spinti dai politici? È in atto una spettacolarizzazione della politica che, replicando il modello dei talk show, genera una polarizzazione tra i poli contendenti.

Certo, non tutta la politica sembra interessarsi alle necessità del popolo che in alcuni casi giudica con altezzosità, spalleggiata dai ceti intellettuali fedeli alla massima di Sergio Ricossa: «Gli intellettuali di sinistra amano il popolo come astrazione: lo detestano probabilmente come insieme di persone vive e cioè rumorose, sudate, invadenti, volgari. Il popolo vivo sembra sopportabile solo se lo si guarda dall'alto di un palco ben isolato ed elevato». Qualche anno fa lo avremmo definito lo snobismo degli intellettuali radical-chic di sinistra, oggi possiamo allargare il campo senza timore di smentita all'intera area progressista che, dai ceti intellettuali fino ai suoi esponenti politici, usa un linguaggio e temi lontani dal popolo.

Capezzone utilizza la metafora degli studi televisivi come esempio dello scollegamento con la realtà dell'intellighenzia nostrana incapace di toccare i temi che stanno più a cuore al popolo: «se vuoi parlare, devi rivolgerti alla common people, e, nello stesso tempo, provare a parlare - almeno un po' - a suo nome. Starei per dire: a nome di chi, a quei talk show non è invitato».

Così, se a margine di un'ospitata televisiva il mondo del web sommerge di rimostranze l'intellettuale progressista di turno, la soluzione più logica non è mettere in discussione i contenuti del proprio discorso e riflettere sulle motivazioni di critiche così feroci e diffuse, quanto prendersela con il «popolo ignorante» incapace di capire e comprendere i propri raffinati ragionamenti. In tal senso Capezzone invita a diffidare degli «esperti» sottolineando un «meccanismo essenziale, di sconvolgente semplicità, eppure incomprensibile per certi intellettuali: ciò che appare offensivo a loro, non necessariamente è offensivo per la gente comune. Gente comune che loro hanno smesso di ascoltare e di frequentare: preferendo giudicarla e disprezzarla, darle i voti e le pagelle, ritirare patente e libretto, processo che ora è ricambiassimo».

Perché a forza di giudicare, guardare dall'alto verso il basso il popolo, il risultato è stato quello di allontanarlo salvo poi attaccarlo nel momento in cui vota per i partiti sovranisti e populisti. La tv generalista diventa così uno specchio del Paese come spiega Capezzone invitando a non sottovalutare la forza comunicativa che, a tutt'oggi, detengono talk show e programmi televisivi poiché «è ancora il pezzo decisivo, con numeri irraggiungibili attraverso altri strumenti. Inutile girarci intorno: qualcosa, in Italia, accade davvero solo se succede appunto su uno di quei sei o sette canali».

Perciò diventa centrale il messaggio politico-culturale veicolato attraverso il piccolo schermo e c'è una parola che rappresenta il fil rouge del libro di Capezzone che dovrebbe guidare un'azione politica consapevole e di buon senso: libertà. Un concetto che ricorre sia in riferimento al covid sia in merito al linguaggio ormai schiavo del politicamente corretto che etichetta qualsivoglia pensiero estraneo alla vulgata dominante come hate speech, quando invece ci sarebbe la necessità di maggiore free speech.

Il libro di Capezzone ci lascia una lezione importante che dovrebbe rappresentare un monito per il panorama politico nostrano: talvolta l'attività mediatica, giornalistica, di pensiero, culturale, è essa stessa attività politica in grado di fornire un contributo imprescindibile ai leader e ai partiti come già avviene in altre nazioni.

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