Che grande testa quel Croce. Un maestro per il XXI secolo

Una raffinata rassegna sul filosofo da cui dovremmo imparare il corretto rapporto con cultura e politica

Che grande testa quel Croce. Un maestro per il XXI secolo

Quando c'è da cercare un maestro, spesso si guarda all'estero oppure, cosa ben peggiore, si sceglie tra quello che offre il mercato televisivo. Sedicenti filosofi, «autorevoli» scrittori, intellettuali noti per essere noti, giornalisti laureati in tuttologia, recentemente perfino virologi di valore pari a zero secondo il ranking internazionale.

E pensare che l'Italia ha dato i natali a Maestri come Benedetto Croce, unico difetto: essere antipatico sia ai comunisti sia ai fascisti. Naturalmente questa è la prova definitiva del suo valore.

Facciamo tre esempi rapidi. Chi ha scritto, prima e meglio di chiunque altro, sulla politica che non può essere giudicata solo con il metro della moralità, anticamera del giacobinismo? Benedetto Croce. Chi ha scritto, prima e meglio di chiunque altro, sul cristianesimo come premessa necessaria per capire cosa sia «occidentale», e quindi a favore della libertà, e cosa no? Benedetto Croce. Chi aveva aperto e chiuso, prima e meglio di chiunque altro, il dibattito sulle ridicolaggini del politicamente corretto? Benedetto Croce, come potete leggere in questa stessa pagina. Sono tre esempi clamorosi. Volendo, potremmo addentrarci in episodi meno noti ma altrettanto illuminanti, come fa Giancristiano Desiderio nel suo raffinato Vita intellettuale e affettiva di Benedetto Croce. Volume secondo. Parerga e Paralipomena (Aras, pagg. 394, euro 25). È appunto il secondo volume della biografia di Croce pubblicata da Desiderio per Liberilibri. A differenza del primo volume, procede per aree tematiche e illustra aspetti a torto ritenuti «minori» giusto per farci capire, alla fine della lettura, che non esiste un Croce «minore». Discutibile, sì, e come potrebbe essere diversamente; minore, no, perché alla fine tutto si tiene, il piccolo illumina il grande.

Un esempio rimarchevole tratto dal volume di Desiderio. Croce mostra tutto il suo scetticismo verso le grandi istituzioni internazionali in tempi non sospetti. Julian Huxley, fratello dello scrittore Aldous, l'autore de Il mondo nuovo e L'isola, fu il primo direttore dell'Unesco. Nel 1947, Huxley scrisse a Croce affinché gli desse una mano per la nuova Dichiarazione dei diritti dell'uomo a cui l'istituzione stava lavorando. Croce rispose con una lettera, datata 15 aprile 1947, poi tradotta in francese e messa agli atti nel volume Unesco. Era una lettera gentile nei toni e durissima nei contenuti. Croce presentava alcune «insuperabili» obiezioni «preliminari»: i valori morali sono condizionati dalla Storia e non possono essere considerati eterni; le Dichiarazioni possono essere solo frutto di un accordo, ma non è possibile trovare appunto accordo con la metà del mondo che vive sotto regimi totalitaristici.

È inoltre molto probabile che Croce conoscesse benissimo il retroterra culturale dell'Unesco e in particolare di Huxley: una visione spietatamente elitaria e fondata su eugenetica da una parte e controllo delle nascite dall'altra. Sul Mondo di Mario Pannunzio, Croce scriverà che il problema era la presenza, nell'Unesco, di molti naturalisti e fisici e matematici che «sono chiusi ai problemi del mondo morale». Una bordata micidiale. Alla quarta richiesta di entrare nell'Unesco, Croce arriverà a dire di essere rammaricato per non aver fatto tutto quello che poteva per impedire la nascita della istituzione in cui gli si chiedeva gentilmente di far parte: «Non potevo tradire la fiducia che altri riponeva in me con l'entrare in una associazione della quale avrei dovuto combattere dall'interno le ragioni di vita». L'Unesco non faceva parte della tradizione occidentale che «ha la sua legge nella libertà e con la libertà compie tutto il suo enorme lavoro». Era un'altra cosa, un incontro deleterio tra la tecnica occidentale e la saggezza orientale.

Quest'uomo, Benedetto Croce, aveva un coraggio poi perduto nel corso del Novecento: il coraggio di pensare in proprio, anche sbagliando, ma senza mai sottomettersi alle mode e soprattutto alle ideologie.

Le testimonianze di questo coraggio si trovano quasi in ogni pagina del libro di Desiderio. Croce deprecava duramente l'erudizione fine a se stessa. Se lo poteva permettere perché lui stesso era un erudito fatto e finito. Quando sorrideva dell'ansia di scoperchiare gli archivi tipica, ad esempio, degli studiosi che facevano capo al fondamentale Giornale storico della letteratura italiana, lo faceva forse a torto ma a ragion veduta: lui aveva fatto lo stesso.

Quando liquidava la filologia come «critica degli scartafacci» non coglieva la novità proposta da Gianfranco Contini (spiegare gli scrittori con le correzioni degli scrittori stesso nel corso della genesi di un'opera). D'altro canto, Contini stesso si guardava bene dal contestare apertamente Croce e si dichiarava post crociano, non anticrociano: sapeva benissimo che le posizioni letterarie di Croce erano cosa seria perché avevano alle spalle una filosofia estetica, una necessità «sfuggita» a quasi tutti i critici del XX secolo, destinati per questo a finire nell'arbitrio e quindi nell'irrilevanza (mi piace/non mi piace).

Croce ha tutto per

essere, ancora oggi, una guida sicura. Desiderio non ha neppure bisogno di dimostrarlo: ci accompagna con mano leggera tra le pagine meno note di Croce, lasciando il lettore a bocca aperta per la grandezza di don Benedetto.

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