Che incubo quando si vuole annullare l'Io in nome di un "Noi"

Che incubo quando si vuole annullare l'Io in nome di un "Noi"

Ecco, il romanzo Noi di Evgenij Zamjatin (1884-1937), che oggi è un classico, non è propriamente un libro facile. Anzi, all'inizio, diciamo pure le prime cinquanta pagine, è quasi ostico. Non è un romanzo che si legge - grazie a Dio - «tutto d'un fiato» (di solito sono i peggiori, comunque i più inutili). No. Noi è una torre che si sale per giorni, anche arrancando. Ma, come sempre accade quando si conquista una cima, beh... Quello che si vede una volta arrivati lassù è qualcosa di speciale.

E da lassù si vede una delle prime (in ordine di tempo) e più alte (per qualità narrativa) rappresentazioni del totalitarismo politico e della disumanizzazione nell'Unione sovietica schiacciata sotto il tallone di Stalin. La fascetta da appiccicare sul libro è del tipo: «La più lucida anti-utopia della letteratura novecentesca».

Comunque, l'impresa merita. L'occasione è una nuova edizione tascabile del romanzo (Evgenij Zamjátin, Noi, Mondadori, pagg. 232, euro 12). La traduzione è di Alessandro Niero, che ha giusto ritoccato quella del 2013 per Voland e che qui firma una bella introduzione in cui aggiorna l'attualizzazione del libro ai tempi dello «strapotere internetico»: «L'invasività dei mezzi di controllo preconizzata dallo scrittore quasi cento anni fa rimane prepotentemente viva oggi, specie se coniugata con la lobotomia, non dirò televisiva, ma più genericamente da schermo, a cui tutti siamo sottoposti» (e volendo si può aggiungere, ancora più recente, l'uso incontrollato dei dati personali in Rete e lo scandalo Cambridge Analytica che ha travolto la politica occidentale).

E torniamo al romanzo. Scritto tra il 1919 e il 1921, subito censurato, pubblicato in inglese nel 1924 (e in Russia solo nel 1988, mentre Zamjatin muore in esilio a Parigi nel '37), Noi è scritto in forma di diario. Ambientato in un lontanissimo futuro, alla fine del terzo millennio, racconta la non-vita in un'immensa città di vetro e di acciaio dello Stato Unico in cui gli individui non hanno nome, ma solo identificazioni alfanumeriche, non hanno privacy (anche il sesso è programmato secondo rigide tabelle burocratiche) e vivono nell'unico culto di un invisibile Benefattore che garantisce a tutti un felicità «matematica». Fino a che un «numero» - l'ingegnere D-503 che sovrintende alla costruzione della nave spaziale Integrale che deve esportare la perfezione dello Stato Unico nell'universo - si ricorda, grazie all'amore per una donna, di essere un Uomo. Felicità e libertà non coincidono. In mezzo c'è solo la rivoluzione.

Rivoluzionario, profetico e antesignano di un genere («Mi interessano i libri di questo tipo. Prendo appunti. Prima o poi potrei scriverne uno anch'io», lasciò scritto George Orwell dopo averlo letto...

), il romanzo di Zamjatin è anche una buona lettura per chi crede ancora in un sano individualismo di fronte al pensiero unico del Partito o delle Società in cui «tutti valgono uguali». Non sempre è bene che tanti «Io» facciano un Noi.

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