Al cimitero si perdono le salme: Rita Pavone non trova più il papà

L’uomo morì nel ’90. Quattordici anni dopo la cantante scoprì che i resti del genitore erano spariti. E ancora oggi non si sa nulla Leggi l'intervista a Rita Pavone

Al cimitero si perdono le salme: Rita Pavone non trova più il papà

Ma dai, è intollerabile. Al Cimitero Monumentale di To­rino sono sparite alcune sal­me. Una di sicuro: è quella di Giovanni Pavone, papà della cantante Rita e di Piero, Carlo e Cesare. Morto la seconda volta nell’aprile 2004, dopo aver cessato di vivere nel 1990, a 79 anni, proprio il 20 marzo. Un uomo al quale il de­st­ino sofferto, il patriottismo e la nobiltà di valori avrebbero dovuto riservare ben altra sor­te che quella di perdere pure la dimora definitiva in una tomba comunale.

«Leale, ge­neroso, buon combattente durante la guerra per la liber­tà della nostra Patria, fu an­che cittadino torinese fiero della sua condizione di umile operaio Fiat», lo descrivono i quattro figli in una lettera al Giornale che bisognerebbe leggere per intero tanto è com­mossa e dignitosa. E forse an­che altre salme, a quanto si sente dire, non sono più al lo­ro posto e neppure si sa dove possano essere finite. Perse. Inghiottite dall’indifferenza dopo esser state abbracciate dalla morte.

Un orrore. Uno schifo diviso a metà tra incu­ria e burocrazia, tra gabole contrattuali e immondi scari­cabarile. Torino, si sa, è una città austera e riservata, con il pudore giusto al posto giusto, mai lamentarsi, per diana!, e tutt’al più celare il proprio sde­gno addolorato dietro quella riservatezza che non per nul­la si dice piemontese. Magari la sorte di qualche disperso, se mai ce ne sono altri al Mo­numentale, può essere stata velata così. Ma il caso di Gio­van­ni Pavone è venuto alla lu­ce con furore perché i figli non ce la fanno più a piangere una tomba vuota, e per di più vuo­ta senza un perché. Dunque, nell’aprile del 2004, un matti­no all’alba, la famiglia era sta­ta convocata per l’esumazio­ne della salma: sapete, uno di quegli spostamenti che la si­lenziosa quotidianità dei cimi­teri talvolta impone. Bene, nel momento più drammati­co, «constatammo impietosa­mente l’avvenuta scomparsa dei suoi resti. L’incuria uma­na e quella negligente di certe dirigenze non ebbero a darci spiegazioni in merito, scari­ca­ndo ciascuno le proprie col­pe reciprocamente ». Il Comu­ne di Torino l’ha attribuita al­la società appaltatrice dei la­vori. E viceversa.

Insomma, il solito, patetico rito di una na­zione fondata sullo scarico di responsabilità e sulla convin­zione che il silenzio, il tiram­molla, l’aumma aumma alla fine paghino e ricolmino il vuoto di parole. Intanto, dal­l’aprile 2004 di Giovanni Pavo­ne si sono perse le tracce pro­babilmente per sempre, in un orribile e kafkiano annulla­mento della dignità umana. Non gli era successo neanche il 15 giugno 1942 quando era nostromo sul Trento, l’incro­ciatore italiano colpito al lar­go di Malta da un aerosiluran­te inglese e poi affondato da un sottomarino della Royal Navy. Una strage, 657 morti, la metà dell’equipaggio, an­che il comandante si lasciò morire nella cabina di coman­do. Giovanni Pavone, che era nato ad Asti ma aveva sangue siciliano, vagò per giorni sul mare con gli altri naufraghi. Poi fu fatto prigioniero. Al suo ritorno a casa, dopo che era stato considerato morto, l’en­fisema polmonare e la pior­rea lo avevano reso irricono­scibile, le difese emotive azze­rate dal trauma. Ricominciò. Poverissimo. Alla Fiat. Come operaio. Nel 1945 nacque Ri­ta, nel 1959 una ricompensa a troppi sacrifici: uno dei tanti alloggi che la Fiat affittava ai dipendenti più bisognosi, tre stanze, bagno e cucina a Mira­fiori. Poi le gioie dei figli, la vec­chiaia, il fiato sempre corto, una morte serena. La prima.

Quando è arrivata la seconda, in quella schifosa alba del­l’aprile 2004, perso nell’estre­mo trasloco imposto da qual­che codicillo, forse neanche lui, che pure era sopravvissu­to ai siluri e alla povertà, si sa­rebbe immaginato tanto scempio.

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