"Via col vento", il bestseller che non si potrebbe scrivere

Dopo 83 anni, una nuova traduzione del romanzo sudista e nostalgico che conquistò i lettori (e il cinema)

"Via col vento", il bestseller che non si potrebbe scrivere

«Io, se c'è una cosa che odio più dei negri e delle donne, sono gli yankee». Giusto per entrare in atmosfera, giusto per dare l'idea di una «filosofia» condivisa da molti degli uomini che compaiono in un libro che, beh, sarebbe considerato un romanzo per signorine, magari dalla lacrima facile... Insomma, la lacrima può anche scivolare, verso pagina mille e centonovanta, ma solo perché il romanzo in questione, notoriamente, non ha nemmeno il lieto fine.

Partendo dall'inizio, Via col vento uscì nel 1936 e, in sei mesi, vendette un milione di copie. Con gli anni, le copie sono diventate trenta milioni. In Italia fu pubblicato nel dicembre del 1937, da Mondadori, e fu subito amatissimo. In quell'anno la sua autrice, Margaret Mitchell, vinse il Pulitzer, e in quello successivo fu candidata al Nobel. Appena il romanzo era stato pubblicato negli Stati Uniti, il produttore David O. Selznick ne aveva acquistato i diritti per girare un film, che nel 1939 sarebbe diventato uno dei più grandiosi successi della storia di Hollywood, premiato con otto Oscar, con Clark Gable che, da sotto i baffi scuri, pronunciava il celebre «Francamente me ne infischio». La traduzione nel film era letterale, dall'inglese I don't give a damn, mentre nel testo in italiano era stata «edulcorata». Infatti Ada Salvatore e Enrico Piceni, traduttori dell'epoca, avevano rispettato i canoni dell'autarchia fascista: quindi, Scarlett O'Hara era «Rossella», sua madre Ellen, «Elena», il brandy acquavite e gli schiavi... gli schiavi parlavano in modo improponibile, con quel «sì, badrona» inascoltabile. Così, visto che il romanzo è ormai libero da diritti, Neri Pozza ha deciso di ripubblicarlo in una nuova traduzione (integrale, a differenza della prima), ad opera di Annamaria Bivasco e Valentina Guani, le quali, giustamente, spiegano che quella parlata «sfiorava il grottesco», e l'hanno quindi modificata in un italiano semplicemente sgrammaticato (nei discorsi degli schiavi è assente il congiuntivo, un po' come da molti discorsi di politici, del resto). E poi le due traduttrici hanno aggiunto qualche «sfumatura»: i predecessori, infatti, spiegano nella nota introduttiva, «rispecchiando il costume dei loro tempi tradussero con negr* anche darkies e blacks e caratterizzarono negativamente nigger con lurido negro o negraccio». Detto questo, come si può notare dalla frase di cui sopra, qualche parolina molto poco corretta è rimasta, eccome... Perché Via col vento è un romanzo strepitoso, dopo mille e duecento pagine si vorrebbe andare avanti a leggere le avventure di Scarlett e Rhett e di tutto quel mondo del Sud al tramonto, con gli abiti meravigliosi, le feste, l'onore, le contraddizioni, le ipocrisie, la frustrazione della sconfitta patita dai nordisti e la ribellione mai sopita, la tragedia della guerra civile e la resurrezione di una nazione, tanto che Goffredo Parise ne parlò come di «una specie di Guerra e pace o meglio di Gattopardo, ma americano». Via col vento è un romanzo storico e, insieme, una costruzione perfetta nella trama, nei personaggi che Margaret Mitchell ha sicuramente amato moltissimo, al punto da permettersi di prenderli in giro, per il loro carattere, le loro virtù e i loro difetti (a partire da quelli, innumerevoli e irresistibili, della protagonista Scarlett), ed è un romanzo nostalgico, un romanzo sudista in tutto e per tutto, come la sua autrice, cresciuta nell'Atlanta dei primi del Novecento fra i racconti di chi non aveva mai abbandonato il sogno della Confederazione. È il romanzo di un mondo sconfitto, che, a sua volta, conquistò il mondo dei vincitori. Ed è un romanzo, questo è il fatto, che oggi probabilmente non si potrebbe più scrivere, né pubblicare. Solo a un classico è concesso di esprimere pensieri come quelli di Scarlett O'Hara, mentre si ritrova a camminare nel fango di Atlanta, poco dopo la fine della guerra, con i neri che ridono a vederla arrancare: «Come osavano sghignazzare, quegli scimmioni? ... Maledetti gli yankee che li avevano affrancati, permettendo loro di mancare di rispetto ai bianchi!». E poi ci sono gli ex schiavi, come la governante Mammy o l'ex caposquadra Big Sam, che non hanno la minima intenzione di farsi «liberare» (la prima) o rimpiangono la piantagione (il secondo), la «marmaglia nera» disprezzata dai neri stessi, e poi la «marmaglia bianca» (ancora più disprezzata), e ci sono le mogli dei nordisti, che non hanno la minima intenzione di affidare i loro figli a delle mani di colore, benché, in teoria, i loro mariti abbiano combattuto proprio per affrancare quelle mani. E ci sono le donne del Sud, convinte a mantenere uno status quo in cui i mariti si sentano sempre dei piccoli re, anche al prezzo della propria infelicità, perché le donne vengono dopo. C'è un mondo passato, che intorno a Scarlett tutti rimpiangono, e poi c'è lei, l'eroina che si ripromette di non soffrire mai più la fame, di non cedere mai la sua terra (la piantagione di Tara), di non guardarsi più indietro, e di non arrendersi mai, come il suo sangue irlandese le suggerisce, costi quel che costi: anche l'emarginazione da parte della buona società, un marito ucciso, l'inganno verso chi le vuole bene, lo sfruttamento dei carcerati, l'indifferenza verso i figli, il disprezzo delle convenzioni, soprattutto quella che vede alle donne perdonare qualsiasi cosa, tranne il mostrare la propria intelligenza. Una donna egoista e senza scrupoli, come le ricorda il suo Rhett, e che Margaret Mitchell non si fa scrupoli, a sua volta, a descrivere come tale.

Via col vento, quello che aveva spazzato la sua Georgia, se n'era andato un mondo, ma non la ribellione vera, quella di una donna anticonvenzionale e molto più avanti non solo rispetto ai suoi tempi, anche rispetto ai nostri. Del Sud non c'è nostalgia, ma di una scrittrice come Margaret Mitchell, sì.

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