Non ci sono soltanto tragiche biografie di pittori sfortunati (Van Gogh), di geni autodistruttivi (Basquiat), di star del pop (Warhol); non ci sono soltanto bellissimi documentari, come quello sul Tintoretto scritto da Melania Mazzucco, commentato da Stefano Accorsi, in sala a fine febbraio poi su Sky Arte. Oggi il cinema è attratto dall'arte non tanto per i suoi protagonisti quanto per gli spunti narrativi che questo circo, se non proprio un bestiario, offre soprattutto quando si scelga un registro grottesco.
I risultati sono alterni ma un dato è certo: il mondo variegato e bizzarro delle aste, delle fiere, delle gallerie, dei collezionisti, degli speculatori, dei critici e curatori, dei direttori di museo sembra fatto apposta per scrivere commedie. Tic, vizi e vizietti, abitudini, un linguaggio per iniziati zeppo di luoghi comuni, una voracità sessuale ad ampio raggio, il look all black o comunque minimalista tratteggia con assoluta veridicità i tratti di una comunità globale che chi frequenta questo ambiente potrà verificare di persona.
Nel 2017 The Square, bizzarro film di Ruben Östlund, vinse la Palma d'oro a Cannes, protagonista un curatore di mostre e la sua smania per un'arte condivisa e performativa in cui a un certo punto non si riusciva più a distinguere la finzione dalla realtà, con accenni alla Buñuel e, sottotraccia, una certa stigmatizzazione per la solita solfa dell'épater le bourgeois. Questo gennaio è passato per alcuni giorni il divertente film argentino di Gastón Duprat Il mio capolavoro, bella storia di un'amicizia maschile tra un artista che ebbe fama negli anni '80 e che oggi nessuno vuole e il suo gallerista che si ostina a difenderlo perché gli vuole bene. Il film riattualizza un vecchio detto: il miglior pittore è quello morto. Se da vivo non vali un granché, è probabile che quando sarai all'altro mondo i tuoi quadri varranno molto di più, permettendo così ampie speculazioni. Un plauso al protagonista che difende la pittura, detesta l'arte concettuale e vorrebbe stritolare il solito critico fighetto ed effeminato.
Su Netflix è in programmazione Velvet Buzzsaw, diretto da Dan Gilroy, protagonisti Jake Gyllenhaal e Rene Russo che già aveva diretto ne Lo sciacallo. Meta-genere tra commedia nera e B-movie horror che prende avvio nei giorni di Miami Art Basel, quando sembra di essere in agosto e non a dicembre e le spiagge della Florida richiamano il gotha del contemporaneo: prima si vendono le opere in fiera, poi ci si diverte nel neverending party con ogni genere di conforto.
Al centro della vicenda un critico, uno di quelli la cui recensione può determinare il successo o l'affondamento di un artista. E i giovani gli corrono dietro per ingraziarsi i favori di un uomo tutto sommato mediocre e nevrotico, cui sembra interessare più il sesso (Velvet Buzzsaw in gergo significa cunnilingus) dell'arte. Ha potere e lo usa, studiando operazioni ad hoc con la gallerista. Una giovane assistente, imprecisa e ritardataria, scopre per puro caso centinaia di dipinti di un pittore sconosciuto, Vitril Dease, morto misteriosamente, ignoto al mercato; quadri contenenti strani misteri, misteri che escono dal quadro. Ma di questo non parliamo. Aldilà della deriva gore il film ancora una volta ribadisce il ruolo fondamentale del mercato, l'unico a dettare legge e dunque a stabilire un valore economico. A maggior ragione per uno di cui non si sa nulla, che non è esposto mediaticamente nell'era dei social, va applicato il meccanismo della cosiddetta legge del desiderio. Nascondere le opere nei caveaux, farne uscire poche alla volta, scatenare la bramosia dei collezionisti, resistere alle offerte, centellinare le vendite per far esplodere il caso e distribuire generose percentuali a tutti gli attori dell'operazione.
Si somigliano, pur girati con stili molto diversi, la commedia argentina e il film di Gilroy, passato all'ultimo Sundance Festival. Per entrambi i giovani artisti valgono poco, modaioli destinati a ballare per una sola estate, al contrario della pittura che invece funziona sempre, nonostante il linguaggio carico e retorico da vecchio espressionismo. Alle storie del cinema, insomma, è pur sempre funzionale la figura tormentata, fuori tempo, critica nei confronti della contemporaneità, gente che alle feste non sarebbe stata invitata neppure per sbaglio.
Continua dunque la profonda discrasia tra ciò che vuole e impone il sistema e l'arte vera e propria, originata da tormenti interiori e necessità esistenziali.Attenzione, la pittura è cattiva e si vendica. La pittura è pericolosa, meglio maneggiare con cura. Anche se è solo un film.
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