Cultura e Spettacoli

Il commento Vincono qualità e geopolitica

VeneziaLebanon di Samuel Maoz ha vinto giustamente il Leone d’oro, raccontando l’invasione israeliana del Libano, nel 1982. La vediamo come la vide il carrista Maoz, dall’interno di un cingolato prima della strage di migliaia di palestinesi a Sabra e Chatila. Poco spettacolare, molto intenso, Lebanon riesce però a essere egualmente un film, non teatro filmato. Se la bravura del regista sta qui, il suo coraggio sta nel mostrare tutto, incluso che in una guerra «vinta» si muore anche nelle fila dei «vincitori».
La giuria di Ang Lee ha poi praticato la distribuzione degli altri premi secondo l’ideologia tipica dei grossi festival, che prevede la maggior trasversalità possibile, per soddisfare più esigenze. La coppa Volpi a Ksenia Rappoport onora la presenza di un’attrice russa di un film italiano, La doppia ora di Giuseppe Capotondi, più che la sua interpretazione, così simile a quella nella Sconosciuta di Tornatore. La Rappoport recita sempre in italiano in ruoli di immigrata: logico che sia ormai l’icona della deracinée.
Al film di Capotondi ha giovato l’origine dell’interprete? Invece è il personaggio (un omosessuale) ad aver favorito la più meritata coppa Volpi per Colin Firth per A Single Man di Tom Ford, ispirato dal romanzo di Christopher Isherwood.
Agli interpreti italiani di film italiani è giunto il minore dei premi e anche quello più tirato per i capelli: il «Mastroianni», che dovrebbe andare a un esordiente. Invece è andato - per Il grande sogno di Michele Placido - a Jasmine Trinca, che ha esordito da un pezzo. Ennesima prova che i vari riconoscimenti non giungono secondo la motivazione ufficiale.
Rispetto all’esito sconsolante dell’anno scorso, due film italiani - su quattro in concorso - ricevono dunque qualcosa. Non essendo la nostra una cinematografia del Terzo Mondo, quindi non giovandosi dell’implicito sistema di «quote», è un risultato interessante. Baarìa esce a mani vuote, ma si poteva esserne certi: con una mezz’ora di meno, specie la prima, avrebbe forse ottenuto qualcosa.
Il resto dei riconoscimenti ha origini fra l’artistico e il geopolitico. Donne senza uomini di Shirin Neshat è un lavoro serio e notevolissimo esteticamente, ma soprattutto è il film di un’iraniana che mostra il colpo di Stato angloamericano contro Mossadeq, nel 1953, però dal lato delle vite familiari. Soul Kitchen di Fatih Akin è l’apice della trasversalità: è il film tedesco di un turco, forse l’unico, che non detesti i greci.

Occorreva incoraggiarlo.

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