«D’ora in poi, questa non sarà più una democrazia!». Più o meno con queste parole si chiude la seconda stagione di Walking Dead, serie televisiva ambientata in un futuro apocalittico, dove pochi sopravvissuti cercano di sfuggire a orde di morti viventi affamati di carne umana. In verità, dopo questa puntata, l’unico morto autentico è il «politicamente corretto», definitivamente seppellito dal protagonista, lo sceriffo Rick Grimes, che abbandona le ultime tracce di tentennante buonismo per abbracciare la dura etica della responsabilità e assumersi tutti gli oneri impliciti nel ruolo di capo. «Chi non è d’accordo, può accomodarsi là fuori», dice ai tremebondi compagni di sventura che hanno criticato le sue ultime scelte, tra cui quella di uccidere il suo ex migliore amico, che, dopo aver subdolamente tentato di prendere il suo posto come capo, marito e padre, ha avuto quel che si meritava e che tutto il pubblico televisivo si aspettava.
Tratta da una serie a fumetti iniziata nel 2003 e non ancora finita, The Walking Dead è diventata una serie televisiva di punta della AMC (in Italia su Fox), che ha già annunciato per l’autunno la terza stagione, dove appariranno nuovi personaggi come il misterioso Governatore accanto a vecchie conoscenze che si credevano defunte.
Dopo un avvio dal ritmo piuttosto altalenante, forse per i sostanziosi tagli nel budget, queste ultime puntate segnano una decisa ripresa, a partire dal momento in cui gli sceneggiatori hanno deciso di buttare nel cestino dialoghi troppo lunghi e problemi di coscienza troppo complessi. Il punto di svolta è nell’ottava puntata, quando, sotto una bandiera sudista che fa capolino sopra lo specchio di un saloon polveroso, anche il mite Herschel, uomo di fede e patriarca della fattoria dove i sopravvissuti hanno trovato rifugio, capisce che il male va combattuto e non assecondato, se non altro per difendere i più deboli, ossia le donne e i bambini. Chi non si adatta alla dura legge è destinato a soccombere, come accade all’altro anziano, Dale, figura nobile ma inefficace, la cui grande sensibilità e profonda saggezza non lo salveranno dal finire divorato dagli zombie. Insomma, sembra che quello che era stato cacciato fuori dalla porta, ossia quel concreto realismo negato dal politicamente corretto, sia rientrato dalla finestra, ed emerga, più o meno consapevolmente, in molte serie televisive, che sono, oggi, il luogo privilegiato per descrivere la realtà con i suoi paradossi e le sue contraddizioni, impermeabili a ogni facile moralismo.
Forse non c’è un nesso causale tra la rimozione del padre e il disordine generale, ma una coincidenza - che Jung chiamerebbe significativa -, quella sì. La scomparsa del padre, che può essere rimozione o semplice oblìo, è, secondo autorevoli psicologi e sociologi, uno dei fattori più disgreganti della nostra società. La cultura del piagnisteo ha incautamente messo al bando, come politicamente scorretti, i valori e idee virili, che da sempre agiscono come motore e collante della società, e il ritorno del padre è proprio uno dei temi dominanti in molte produzioni televisive, a partire da quel rozzo e impresentabile Homer Simpson, che pur con tutti i suoi difetti regge l’indistruttibile equilibrio della famiglia americana più apprezzata nel mondo.
Lo spettro del padre, proprio come quello di Amleto, accompagna i protagonisti di molte serie di successo, a partire dall’indimenticabile Lost, passando per Six Feet Under fino ad arrivare all’insuperabile Dexter (su Fox Crime), il serial killer dei serial killer che agisce seguendo il codice impartitogli dal defunto padre, che continua ad assistere, da fantasma, il figliolo dal destino segnato.
Ed ecco l’ultima parola proibita: destino, idea che anima i protagonisti di un’altra serie di grande successo in onda su Fox, C’era una volta; qui, tutti i personaggi delle fiabe tradizionali, da Cappuccetto Rosso a Biancaneve, dalla Bella alla Bestia, a causa di un incantesimo della strega cattiva hanno dimenticato la loro vera identità e vivono come persone normali nella cittadina americana di Storybrooke. Ma, invece di dedicarsi a vivere come meglio possibile, ognuno sembra cercare inconsciamente di riconoscere il proprio personaggio per essere all’altezza del proprio ruolo.
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