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Così il Duce eliminò Luigi Fulci, il liberale che sapeva troppo

Un saggio rivela come l'ex ministro, inviso al Regime, fu astutamente avvelenato con dosi letali di chinino

Così il Duce eliminò Luigi Fulci, il liberale che sapeva troppo

Il 7 ottobre 1930 l'avvocato antifascista Luigi Fulci, già ministro per le Poste e i Telegrafi nei governi Facta, venne raccolto barcollante dai fedeli famigli nella sua abitazione romana. Qualche giorno dopo, l'11 ottobre, dopo lunga agonia, quest'uomo politico di sentimenti liberali spirò. La sua morte venne ufficialmente attribuita a un attacco di malaria perniciosa. Già all'epoca circolarono voci e sospetti sul fatto che il decesso dell'ex deputato non fosse dovuto a cause naturali ma fosse, piuttosto, l'esito di un delitto politico. I suoi discendenti, primo fra tutti l'ambasciatore Francesco Paolo Fulci, sono riusciti, negli ultimi anni, a ottenere il permesso di estumulazione della salma e a farne eseguire analisi cliniche ed esami tossicologici. È stato così stabilito che il decesso avvenne per avvelenamento da chinino somministrato in dosi massicce in assenza della malattia da curare. In altre parole, l'ex ministro non morì di malaria.

L'ipotesi che Luigi Fulci sia rimasto vittima del «chinino di Stato», ossia di un «delitto politico», non è, a questo punto, più una ipotesi da scartare. Alla vicenda lo storico Marcello Saija ha dedicato un libro, L'assassinio di Fulci. Dagli intrighi dinastici della Marcia su Roma al chinino letale «di Stato» (Rubbettino, pagg. 216, Euro 16) che si legge come un giallo e che, al tempo stesso, rappresenta la prima biografia, documentata e frutto di attenta ricerca effettuata presso fondi archivistici pubblici e privati, di questo esponente politico dell'Italia liberale. L'approccio biografico, del resto, era essenziale per poter capire i motivi dell'ostilità del fascismo nei confronti di Fulci e di quali pericolosi «segreti di Stato» egli potesse essere a conoscenza.

Appartenente a una importante famiglia dell'alta borghesia siciliana, dalla quale erano già venuti fuori deputati appartenenti sia alla sinistra storica sia all'area giolittiana ed esponenti di primo piano della vita politica e amministrativa dell'isola, Luigi Fulci (1972-1930), allora radicale ma legato a Giolitti, fece il suo ingresso in Parlamento alle elezioni politiche del 1919. Fu rieletto nel 1921 nella lista «demosociale». Nel 1922 venne chiamato da luigi Facta a guidare, tanto nel primo quanto nel secondo gabinetto, il ministero delle Poste e dei Telegrafi. Era un momento delicato perché l'offensiva fascista per la conquista del potere stava prendendo corpo.

Secondo Saija, proprio nella fase più convulsa della crisi dell'ottobre 1922, Fulci avrebbe svolto, sia pure come intermediario, un ruolo destinato a rivelarsi fondamentale per spingere Vittorio Emanuele III a non firmare lo stato d'assedio e a lasciare, così, via libera alla «marcia su Roma». I sentimenti di Fulci nei confronti del fascismo erano ben noti. Già nella riunione del consiglio dei ministri tenutasi nel pomeriggio del 26 ottobre, si dichiarò favorevole al piano predisposto dal ministro dell'Interno Paolino Taddei che prevedeva l'arresto di Mussolini. Nelle ore concitate che precedettero la mancata firma da parte del Re del decreto di stato d'assedio, poi, fece pervenire al sovrano, forse per il tramite del generale Arturo Cittadini o dello stesso Facta, una lettera del duca Amedeo d'Aosta, che secondo l'ipotesi dell'autore del libro avrebbe rivelato l'esistenza di una proposta di Mussolini al mitico comandante della III armata, Emanuele Filiberto d'Aosta, di un cambio della dinastia regnante. Proprio a seguito di questa lettera Vittorio Emanuele III avrebbe deciso di non dare più il via al decreto sullo stato d'assedio.

In realtà e verosimilmente, il sovrano, per quanto preoccupato dalle ambizioni del cugino, adottò la propria linea di condotta in base ad altre considerazioni: il timore di scatenare una guerra civile, la sopravvalutazione delle forze rivoluzionarie, il consiglio datogli da Armando Diaz di non «mettere alla prova» la fedeltà di un esercito lealista ma con simpatie per i fascisti. E non ultimo lo scrupolo giuridico della emanazione da parte di un governo dimissionario di un atto straordinario qual era, appunto, il decreto di proclamazione dello stato d'assedio.

Se la lettera fatta pervenire da Fulci a Vittorio Emanuele III avesse avuto davvero quel contenuto e fosse stata resa pubblica il governo fascista avrebbe avuto un danno di immagine perché esso sarebbe apparso come risultato non già di una operazione politica ma di un «ricatto». E lo stesso Vittorio Emanuele III non ne sarebbe uscito bene. Alla ricerca di una copia fotografica di quella lettera, che sembra Luigi Fulci custodisse, furono, secondo l'autore del volume, indirizzate con molta probabilità le ripetute, inspiegabili e, per l'epoca, ancora irrituali perquisizioni che a partire dall'ultimo scorcio del 1923 vennero effettuate dalla polizia nelle abitazioni e negli studi professionali di Fulci.

L'ipotesi appare plausibile anche se, a ben riflettere, l'attività persecutoria messa in atto nei confronti di Fulci sembrerebbe dettata, piuttosto che dalla volontà di recuperare la presunta copia fotografica della famosa lettera, dal fatto che il suo antifascismo diventava sempre più forte e intransigente. Basti pensare che, all'epoca del delitto Matteotti, Fulci aveva pubblicato con grande risalto un articolo che esordiva con queste parole: «non è soltanto quello del povero Matteotti il cadavere che il fascismo ha occultato. Altri ne custodisce negli armadi più reconditi». E del resto egli rieletto deputato nelle liste dei demosociali insieme a Giovanni Antonio Colonna di Cesarò e divenuto membro della Giunta per la convalida degli eletti aveva chiesto in apertura dei lavori che venisse invalidata l'intera tornata elettorale del 1924 essendo stata coartata la volontà degli elettori con violenze e minacce. Poi c'erano state la secessione dell'Aventino e la decadenza dei deputati aventiniani. Per Fulci ciò significò il ritorno alla professione forense, ma non il disinteresse per la politica come ben dimostrano le riflessioni, fortemente critiche nei confronti del regime, che sono conservate negli archivi familiari.

Le perquisizioni e i pedinamenti cui venne sottoposto Fulci sono collegabili proprio al suo antifascismo attivo e non già sembra di potersi affermare all'intenzione di Mussolini e del capo della polizia Arturo Bocchini di recuperare la copia della lettera del duca d'Aosta che avrebbe sì procurato imbarazzo al governo italiano, soprattutto per la possibile strumentalizzazione da parte della Concentrazione antifascista di Parigi, ma che avrebbe difficilmente comportato conseguenze sulle sorti di un regime in via di rafforzamento.

Nel suo volume Saija segue minuziosamente, attraverso i rapporti di polizia e le note degli informatori, le tracce del controllo esercitato su Fulci. È un racconto serrato e appassionante che si conclude con la decisione di eliminare fisicamente l'ex ministro e deputato, personalità di grosso rilievo in campo nazionale e locale, con la somministrazione di dosi massicce di chinino. Un delitto politico, insomma, perpetrato mentre venivano portate a termine, alla vigilia della nascita ufficiale dell'OVRA, altre operazioni contro gli antifascisti, a cominciare dalla retata dei vertici di Giustizia e Libertà. Un delitto politico del quale si parlava sottovoce ma di cui mancavano le prove.

Almeno fino a quando non sono stati effettuati gli accertamenti clinici che hanno mostrato come il «delitto perfetto» non era poi tale.

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