La primavera di Praga finì in un caldo giorno d'agosto di 50 anni fa. Ricordo quella mattina: ero in treno, alla stazione di Monaco di Baviera, di ritorno da un viaggio di studio in Norvegia, quando lessi le prime notizie sullo «sbarco», avvenuto proprio a cominciare dalla sera del 20, dei carri armati sovietici e dei Paesi satelliti (tranne la Romania) nella capitale ceca che pose termine alle nostre speranze giovanili e alle illusioni del Sessantotto: era l'amara conclusione di un sogno di mezz'estate durato troppo poco. Un sogno che, comunque, non tramontò del tutto perché lasciò tracce importanti oltrecortina tanto che, a cominciare dagli anni '80, quella specie di rivoluzione silenziosa voluta dal riformista Alexander Dubcek, passata alla storia come «rivoluzione di velluto», dette il «la», per quanto possibile, a un comunismo dal volto più umano.
Tutto cominciò, nel gennaio '68, quando Dubcek salì al potere e portò aria fresca in Cecoslovacchia: se a Budapest, dodici anni prima, il vento riformista sfociò subito nella rivoluzione ungherese, a Praga il primo segretario del Partito Comunista, assieme all'economista Ota Sik e a pochi altri, cercò di accelerare in modo soft il processo di destalinizzazione che nelle Repubblica cecoslovacca stava progredendo più lentamente rispetto ad altri Paesi del Patto di Varsavia. Le riforme di quello che Dubcek chiamò «socialismo dal volto umano», da una certa democratizzazione a un parziale decentramento dell'economia, da una maggior libertà di movimento a minori censure per i giornali, non intendevano mettere in discussione la fedeltà a Mosca, ma non furono condivise dall'Urss di Breznev che non poteva rischiare una defezione cecoslovacca nel periodo più caldo della «guerra fredda» con l'Occidente. Il Cremlino dette così il via alla «normalizzazione» e in quella notte di mezzo secolo fa circa settemila tra carri armati e veicoli corazzati del Patto di Varsavia entrarono nella capitale: il dado era tratto e Dubcek finì come manovale in un'azienda forestale.
Su quella stagione, il segretario nato vicino a Bratislava si soffermò in un'intervista quando, vent'anni dopo, venne in Italia per incontrare Giovanni Paolo II, il Papa polacco con il quale dialogò a lungo in slavo, e per ricevere la laurea honoris causa a Bologna. Parlò di «rinascita», sulla scia delle riforme in Urss di Gorbaciov, e trovò una specie di continuità tra la «primavera di Praga» e la perestrojka anche se - in quell'Unione Sovietica che si sarebbe dissolta nel 1991 - era ancora definito «il fallito uomo politico». Molto più lusinghiero fu invece il giudizio su Dubcek e sulla «primavera di Praga» che dette Gorbaciov quando venne ad Arcore nel '94, poco prima della discesa in campo del Cavaliere. Ma di quella grande stagione oggi non è restato molto, oltre alla suddivisione politica tra Repubblica Ceca e Slovacchia, proposta dallo stesso Dubcek, attuata pochi anni dopo.
E anche in Italia i ricordi della «primavera di Praga» si sono affievoliti, a parte la canzone di Francesco Guccini e il busto dedicato a Dubcek alla facoltà di Scienze politiche dell'Università di Forlì. Eppure fu proprio lui a dare la scossa al blocco comunista finita in quella notte di mezz'estate.
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