"Così l'icona Wollstonecraft ispirò la figlia Mary Shelley"

Samantha Silva, biografa della fondatrice del femminismo liberale: "Lottò per l'istruzione delle ragazze"

"Così l'icona Wollstonecraft ispirò la figlia Mary Shelley"

Mary Wollstonecraft (1759-1797): filosofa, fondatrice del femminismo, madre di Mary Shelley. Una donna notevole, una figlia notevole, una vita da romanzo. Dice Samantha Silva, scrittrice e sceneggiatrice dell'Idaho: «All'inizio ne ero intimidita ma, leggendo tutte le sue Lettere scritte durante un breve soggiorno in Svezia, Norvegia e Danimarca ho cominciato a vederla come viva, umana, reale. La sua storia è così vicina a quella di molte donne oggi, che combattono per l'uguaglianza, la libertà sessuale, la ricerca di una propria voce...». Così è nato Amore e furia (Neri Pozza, pagg. 332, euro 18; traduzione di Daria Restani), un (bellissimo) «romanzo di Mary Wollstonecraft», come recita il sottotitolo in inglese. Samantha Silva lo presenterà a Roma, il 12 aprile (Casa delle Letterature, ore 18).

Amore e furia: che cosa ci dice di Mary Wollstonecraft?

«Il suo enorme potere personale e la sua passione. Non c'è dubbio che fosse focosa e formidabile, mossa dalla rabbia per le sue esperienze, ma cercò e offrì disperatamente anche molto amore».

La storia è una tragedia: una agonia di undici giorni, l'addio straziante di una madre alla figlia appena nata, Mary, che crescerà senza di lei e, noi sappiamo, sposerà Shelley e scriverà Frankenstein.

«Gli undici giorni fra la nascita di Mary Shelley e la morte di Wollstonecraft di febbre puerperale sono stati importanti per la struttura del romanzo: mi hanno imposto di scegliere gli undici momenti più formativi della sua vita, ciascuno parte della storia e dell'eredità che trasmette alla figlia appena nata, che guadagna tanta più forza quanta lei ne perde. Scrivere le sue ultime parole è stato molto intimo per me: avevo appena perso mia madre, mia figlia stava per lasciare casa e, in quello spazio liminale fra una madre e una figlia, ho trovato l'agonia, sì, ma anche tenerezza, resilienza, e amore».

Mary era un'icona ma la sua vita fu breve e complicata.

«Ha combattuto contro la depressione, che la portò a due tentativi di suicidio. Ma, dal profondo della disperazione, è risalita e si è riassestata, diventando più riflessiva e intuitiva. C'è una forte affermazione di vita nel modo in cui Wollstonecraft usava i fallimenti e le tristezze per crescere nel pensiero, per spingersi oltre, sperimentare di più, immaginare possibilità ancora più grandi».

È stata anche felice?

«Sì, e adorava esserlo, per esempio nei primi due anni con Gilbert Imlay, in Francia. O quando nacque la sua prima figlia, Fanny. Cercava la luce, ogni volta che poteva».

La sua infanzia è stata dura, col padre violento e quasi nessuna possibilità di istruzione. Quanto l'ha formata?

«Era furiosa per il fatto che il padre abusasse di sua madre, e che suo fratello Ned fosse considerato degno di ricevere un'istruzione mentre lei e le sue sorelle no. Non c'è dubbio che il suo innato senso delle ingiustizie e delle disuguaglianze sia nato da quelle prime esperienze. Ma questo l'ha anche portata a studiare senza sosta, e a chiedere la stessa istruzione per ragazze e ragazzi - la base per un mondo più giusto e umano».

Definiva il matrimonio una tirannia, ma tentò il suicidio per amore, ne era quasi oppressa...

«E non sono, queste, le meravigliose contraddizioni dell'essere umano? Considerava il matrimonio una tirannia da quando aveva assistito alla relazione violenta fra i genitori, e lo credeva ancora, quando sposò William Godwin per ragioni pratiche. Ma non smise mai di desiderare l'amore e l'affetto, come quelli provati con Fanny Blood».

Il suo matrimonio con Godwin era un'eccezione per l'epoca?

«Credo che, dopo la sua infatuazione per l'artista Füssli e per lo speculatore americano Gilbert Imlay, entrambi dei seduttori, Godwin fosse un uomo meno eccitante, ma più affidabile e gentile. Si sposarono affinché Mary non avesse un altro figlio fuori dal matrimonio. Nel breve tempo insieme hanno cercato di realizzare un vero matrimonio alla pari, moderno, come noi cerchiamo ancora di fare oggi».

In che senso è «la prima femminista»?

«Le attribuiamo questo termine, ma lei non lo riconoscerebbe: la riforma radicale non faceva ancora parte del lessico inglese. Ma l'idea che le donne fossero uguali agli uomini, che dovessero avere la stessa istruzione e il potere di decidere il proprio destino, era profondamente radicale per l'epoca. Credo che l'espressione madre del femminismo sia più adatta».

La sua eredità oggi?

«In Sui diritti delle donne ha scritto la celebre frase: Non auspico che le donne abbiano il potere sugli uomini, ma su sé stesse. Un mantra da ripetere, fino a che diventerà vero».

Come ha influenzato sua figlia Mary Shelley?

«Ho pensato spesso a come possa essere stato, per lei, crescere senza una madre in carne e ossa, ma con una leggenda in casa. Aveva letto ogni cosa che la madre avesse scritto, si considerava un'adepta. Lei e Shelley andavano in pellegrinaggio sulla sua tomba, dove leggevano le sue opere ad alta voce... Aveva la stessa fiamma della madre, il suo gusto per l'avventura, la disponibilità a rischiare tutto per amore, senza timore di infrangere le norme sociali. Le vedo come spiriti gemelli, entrambe determinate a vivere liberamente».

Quando Wollstonecraft arriva a Londra entra nel circolo di Joseph Johnson e frequenta William Blake, Füssli, Thomas Paine... Chi è stato il più importante per lei?

«Che atmosfera intellettuale intorno alla tavola di Johnson... È proprio lui che, come editore, ha scommesso su Mary, consentendole di vivere della sua scrittura, una cosa quasi inaudita. Mary aveva un invito a tavola ogni sera. Jonhson la considerava una sua pari ed è stato un suo amico fedele e generoso per tutta la vita».

E quali esperienze l'hanno formata di più?

«È straordinario pensare che abbia attraversato la Rivoluzione francese e quella americana; ma non era mai passiva, cercava sempre nuove idee: i sermoni di Richard Price furono determinanti ma, quando le idee non erano abbastanza avanti, ci si spingeva da sola... Scrisse Sui diritti delle donne solo poche settimane dopo la lettera a Burke sui diritti degli uomini, come a dire: Sono in ballo, vado fino in fondo».

Era davvero «una forza della natura»?

«Sì, con una immensa forza della

mente e della volontà. Ma percepiva il mondo con intensità e le sue depressioni erano debilitanti. Per lei era una debolezza, per me è qualcosa di umano, e comprensibile. Adoro la sua complessità, e le sue contraddizioni».

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