Si può vincere una guerra perdendone quasi tutte le battaglie. Si può anche scatenare, a cose fatte, uno psicodramma che trasformi due scontri finiti male, ma senza reali conseguenze, in un dramma nazionale con tanto di processi eccellenti, e privi di qualunque equità. Poi si può continuare a sentirsi defraudati per anni della dignità nazionale e mascherare il tutto sotto un'enorme dose di retorica che esalti il sacrificio, senza però prendersi la briga di indagare sulle magagne della propria macchina bellica.
Andò così nella Terza guerra di indipendenza italiana (durata dal giugno all'ottobre 1866) di cui ricorrono i 150 anni. Una bella e approfondita analisi di quel conflitto la compie Hubert Heyriès (storico militare dell'università Montpellier III) nel suo Italia 1866. Storia di una guerra perduta e vinta (Il Mulino, pagg. 348, euro 25). Il saggio racconta come l'Italia fu abile diplomaticamente a intuire le potenzialità della montante tensione tra l'Austria e la Prussia del cancelliere Bismarck (1815-98). Era l'occasione giusta per liberarsi della presenza asburgica nella Penisola. Con i buoni uffici di Napoleone III, il conte Giulio Cesare di Barral e il generale Giuseppe Govone apposero la loro firma, in nome dell'Italia, su un trattato offensivo valido unicamente per 3 mesi. Era l'8 aprile 1866. L'Austria si sarebbe trovata chiusa in mezzo a una tenaglia di ferro. Combattere su due fronti l'avrebbe quasi di sicuro costretta alla sconfitta.
Sin qui la parte logica del piano, a prescindere delle immediate diffidenze tra Firenze (allora era la capitale) e Berlino. Così il 20 giugno Vittorio Emanuele II diede ottimisticamente il via alle ostilità: «Voi potete confidare nelle vostre forze, italiani, guardando orgogliosi il florido esercito e la formidabile marina...». E su questo ottimismo si allineò subito tutta la nazione. L'entusiasmo portò con sé - come spiega Heyriès - due ulteriori buoni risultati. La mobilitazione fu rapidissima e Garibaldi si vide piombare addosso un gran numero di volontari che usò nel modo che gli era più consono: attaccare verso in Trentino in un territorio frastagliato e montagnoso. Per un genio indiscusso della guerriglia era l'ideale.
Ma fuori dalle montagne trentine la macchina bellica italiana iniziò a mostrare tutti i suoi limiti. La Prussia premeva per un attacco rapido. Per colpire efficacemente a nord le serviva che le truppe austriache fossero impegnate a sud. Ma gli italiani si trovavano difronte le fortezze del Quadrilatero e nessuno aveva sviluppato un vero piano per superarle. Un attacco dal mare con sbarco, a partire dalla netta superiorità navale italiana, era un qualcosa di cui si era solo fantasticato. Le nostre navi erano eterogenee (quanto gli equipaggi nati fondendo tre marine) e non certo adatte a un attacco di questo tipo. Così l'enorme esercito italiano (per la prima volta il Paese aveva un esercito di massa) nel dubbio e senza un chiaro piano d'attacco fu schierato in due tronconi. Centoventimila fanti e 7mila cavalieri sul Mincio comandati dal generale La Marmora. Altri 64mila fanti e 3500 cavalieri affidati invece al generale Enrico Cialdini sulla linea del Po. Gli Austriaci erano in netta minoranza numerica ma ebbero così la possibilità di giocare sulla velocità per colpire uno dei due tronconi. A questo si sommò la deficienza logistica degli italiani. Risultò un problema persino fornire le coperte. Oltre il fatto che molti soldati non avevano mai combattuto, o soltanto contro i «briganti». In più, la litigiosità degli alti ufficiali...
Le truppe di La Marmora, mentre cercavano di sorprendere gli austriaci oltre l'Adige, si fecero sorprendere dal nemico appena passato il Mincio. Ne nacque uno scontro disordinato: la seconda battaglia di Custoza. Nonostante tutto gli italiani si batterono bene. Gli Ulani del battaglione «Conte di Trani» e la brigata di Cavalleria di Ludwig von Pulz vennero massacrati a Villafranca dal quadrato di fucilieri comandato dal principe Umberto. I granatieri sul Monte Torre e sul Monte Croce fecero pagare agli austriaci ogni palmo di terra. Ma nel momento più critico alcuni ufficiali, come il generale Della Rocca, non inviarono rinforzi, seppur richiesti nella zona più a rischio, Custoza. Il risultato fu che le truppe italiane dovettero ritirarsi. Gli austriaci non le inseguirono: avevano subito colpi altrettanto gravi. Gli italiani avevano perso tra morti, feriti, e prigionieri 7.403 uomini. Gli austriaci 7.956. Ma era il morale degli italiani a essere crollato. E le cose peggiorarono ancora quando i Prussiani travolsero gli austriaci a Sadowa, il 3 luglio. Ne nacque una sorta di psicosi: bisognava vincere «qualcosa» al più presto.
E così ci si rivolse alla Marina. Gli italiani cercarono di attirare la flotta del contrammiraglio Tegetthoff verso Ancona. L'austriaco sapeva fare il suo mestiere e non uscì dal porto. Allora il ministro Depretis piombò ad Ancona e «sobillò» contro l'ammiraglio Carlo Pellion di Persano i suoi diretti e gelosissimi sottoposti, l'ammiraglio Vacca e l'ammiraglio Albini. Il risultato fu che venne allestito in fretta e furia l'attacco all'isola di Lissa che era ben fortificata e per di più collegata via telegrafo. Fu lì che la flotta austriaca subito allertata piombò sulle navi italiane. Anche in questo caso lo scontro (l'anniversario è oggi, 20 luglio) non era perduto a priori, anzi, alcune navi austriache come la «S.M.S. Kaiser» se la videro brutta. Ma se i rapporti tra Persano, Albini e Vacca erano pessimi in condizioni normali, si rivelarono tragici in battaglia. Le reazioni di Persano furono confuse, ma anche quando diede ordini chiari i suoi sottoposti si sforzarono di eluderli. Bilancio di 37 minuti di battaglia: l'affondamento della «Re d'Italia» e della «Palestro» e la morte di 638 marinai. Se Custoza era una quasi sconfitta trasformata in disfatta dalla stampa, Lissa fu una sconfitta senza se senza ma.
Lo choc fu fortissimo e non bastarono i successi di Garibaldi in Trentino ad anestetizzarlo. Men che meno l'annessione del Veneto e del Friuli sprezzantemente ceduti dall'Austria alla Francia e dalla Francia a noi (a mezzo plebiscito) che pure fu indubitabilmente un grandissimo passo verso la completa unificazione del Paese. Gli italiani incorporarono un senso di fragilità militare che non hanno mai smesso di portarsi dietro. E per colmarlo misero sotto processo l'ammiraglio Persano che fu radiato dalla Marina. Ma quale fosse la differenza tra lui e gli altri ammiragli che gli avevano messo i bastoni tra le ruote nel bel mezzo dello scontro non fu mai chiarito.
Sulle responsabilità degli ufficiali del Regio esercito invece ci si limitò alle polemiche velenose.Anche questo lavacro di coscienza collettivo a mezzo capro espiatorio si trasformò in una brutta prassi nazionale. Anzi forse è il cascame, sociologico, più grave di questa guerra vinta senza vincere.
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