Così un ragazzo innamorato è diventato il Dante di Avati

Il regista realizza il suo sogno di un film sul Sommo Poeta: un lavoro durato 18 anni, fra molti ostacoli

Così un ragazzo innamorato è diventato il Dante di Avati

«È sempre stato celebrato un Dante militante e poco affettuoso e così a scuola lo abbiamo odiato; hanno fatto di tutto per allontanarcelo e, invece, bisogna avvicinarlo a noi. Ho sempre pensato che il Divin Poeta andasse risarcito». Il senso del Dante diretto da Pupi Avati, in uscita il 29 settembre con 01, nelle nostre sale (peccato non averlo anticipato di una settimana, in occasione di Cinema in Festa; ma potrà partecipare alla designazione del titolo di candidato a rappresentare l'Italia all'Oscar, prevista il 26 settembre), sta tutto nella dichiarazione di intenti del regista bolognese. Un film che ha inseguito per diciotto anni, non senza (giustificate) polemiche da parte sua per la mancanza di finanziamenti da parte del MiBact che ne aveva, inizialmente, frenato la realizzazione. Un lungometraggio che, nelle intenzioni di Avati, è risarcitorio anche del nostro cinema. «Non è solo il cinema oggi ad essere in crisi. Il problema è nazionale, di gran parte dell'Occidente e dell'Italia, che si è privata di ambizione. I ragazzi a cui insegno in una scuola di recitazione mi dicono che hanno sì il desiderio di fare questo lavoro, ma hanno anche un piano B. Sappiate che chi ha il piano B, farà il piano B».

Tratto dal suo romanzo L'alta fantasia, il film di Avati è una sorta di «bigino» dantesco, anche se è ingiusto sintetizzarlo così. Tante cartoline per raccontare i momenti chiave della sua vita, narrati, però, con un senso estetico che rappresenta la summa del suo modo di fare cinema. E che continuano a farcelo amare. A volte, gli scappa un po' la mano. La scena di Dante che sta defecando vicino al fiume mentre si appresta ad andare in battaglia era proprio necessaria? Poco male, ripensando alla difficoltà che deve aver avuto Avati nel sintetizzare, in poco più di 95 minuti, la vita del Sommo. Un'impresa, ma anche una bella lezione: Pupi dimostra che si può fare un film simile senza costringere gli spettatori a venire in sala con i generi di conforto, vista la durata imposta alle loro «opere» da certi autori nostrani. L'idea vincente del Dante di Avati è l'approccio con il quale Pupi si è avvicinato a episodi già noti. Ovvero, attraverso una visione più leggera dell'uomo Dante. Raccontato come in una sorta di «romanzo» di formazione di un coetaneo con il quale molti ragazzi (speriamo che le scuole organizzino proiezioni mirate) finiranno per identificarsi.

Siamo nel 1350 e Giovanni Boccaccio (Sergio Castellitto) viene incaricato dalla Compagnia di Orsanmichele di portare dieci fiorini d'oro come risarcimento simbolico a Suor Beatrice (Valeria d'Obici), la figlia di Dante Alighieri (Alessandro Sperduti), suora, a Ravenna, nel monastero di Santo Stefano degli Ulivi. Città dove Dante è morto in esilio, nel 1321, e dove lei ostinatamente rimane, per onorare i suoi resti, odiando Firenze e i fiorentini. Il viaggio del Boccaccio, che considera Dante un secondo padre, è una sorta di pellegrinaggio per raccontare, attraverso luoghi e testimoni, le ingiustizie patite da Dante.

Si parte dalla morte della mamma, Bella degli Abati, alla quale il piccolo Dante deve baciare, terrorizzato, il viso, per passare all'incontro tra il padre e Lapa di Chiarissimo Cialuffi: «Lapa è la tua nuova mamma. Piangevi perché non avevi una mamma, adesso ce l'hai». Ritroviamo Dante a 9 anni, quando incontra il grande amore della sua vita, Beatrice Portinari. Che rivede nove anni dopo, alle nove, come a sottolineare la coincidenza esoterica. Lei gli rivolge la parola salutandolo e lui, estasiato, non sta più dentro nella pelle, contorcendosi, inebriato, sul letto. Quanti ragazzi avranno vissuto la stessa emozione? Ecco, è questo il taglio che Avati sceglie per consegnarci un Dante, per certi versi, inedito in ciò che è edito. Occasione anche per celebrare alcuni dei suoi versi più famosi, come in A ciascun'alma presa e gentil core: «Allegro mi sembrava Amor tenendo», composto dopo il suo sogno di Amore che regge Beatrice, avvolta in un drappo, e che gli mangia il cuore. Infatti, poco dopo, lei finisce in sposa al quarantenne Simone Bardi: «Tanto gentile e tanto onesta pare la donna mia». Non mancano, ovviamente, i riferimenti alla guerra tra Guelfi e Ghibellini, come la battaglia di Arezzo.

Dante sposa, controvoglia, Gemma Donati, alla quale non dedica versi e rompe l'amicizia con Guido Cavalcanti quando decide di diventare priore. La divisione tra Guelfi bianchi e neri, lo scontro con Bonifacio VIII, l'invio di Carlo di Valois, l'esilio: Avati sintetizza queste tappe fondamentali della vita di Dante.

Esteticamente affascinante, con una fotografia che esalta ogni quadro, alcune trovate di regia geniali, Dante è un film non solo riuscito, ma importante per quello che rappresenta. Complimenti ad Avati per averlo confezionato in maniera così elegante. Con la nostalgia di rivedere, per l'ultima volta, Gianni Cavina.

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