Nel 1912 Umberto Boccioni scrisse, nel Manifesto della scultura futurista: «Proclamiamo l'assoluta e completa abolizione della linea finita e della statua chiusa. Spalanchiamo la figura e chiudiamo in essa l'ambiente». Al proclama fece seguire un capolavoro, la scultura Forme uniche della continuità nello spazio. Oggi tutti gli italiani conoscono quell'opera, incisa in un centimetro e mezzo sulle monete da venti centesimi di euro: ma pochi sanno di che cosa si tratta, a testimoniare quanto la scuola abbia trascurato il futurismo. Per questo festeggiamo un ottimo libro, pubblicato da Roberto Floreani - un altro pittore-scrittore - che illustra bene l'uomo e la sua opera: Umberto Boccioni. Arte-vita (Electa, pagg. 250, euro 22,90).
Subito dopo avere pubblicato, a Parigi, il Manifesto del Futurismo, il 20 febbraio 1909, Filippo Tommaso Marinetti era tornato a Milano per cercare gli artisti che avrebbero realizzato le opere del movimento, finora soltanto teorizzato. L'arte deve cambiare. I poeti devono essere folli e celebrare anche il brutto; i pittori devono dipingere «come gli ubriachi cantano e vomitano, suoni, rumori e odori» e gridare il loro «Basta!» a ritrattisti, disegnatori di interni, illustratori di montagne e laghetti.
Filippo Tommaso e Umberto si incontrano durante una delle serate futuriste nei teatri milanesi che, inevitabilmente, finivano in scazzottate. «Effetì», come lo chiamavano molti futuristi, scriverà su Boccioni, poco dopo: «Ha un'anima avventurosa e inquieta di lottatore, attratto di volta in volta dall'azione violenta e dal sogno». Una descrizione perfetta, cui si aggiunge il genio di Umberto, che «Effetì» intuisce subito.
Boccioni era nato a Reggio Calabria nel 1882, da genitori romagnoli. Suo padre era un impiegato di prefettura che spesso cambiava sede con la famiglia. A diciassette anni si diploma all'istituto tecnico di Catania, nel 1900 si trasferisce a Roma e prende lezioni di disegno, ma non vuole frequentare l'Accademia, già critico verso le istituzioni ufficiali dell'arte. Intanto conosce Severini e Balla, che lo indirizzano alla pittura divisionista. Nel 1906 compie il canonico viaggio a Parigi e da lì - diventato amante di una nobildonna russa, poiché era un gran seduttore - va a Mosca e San Pietroburgo. Finalmente si iscrive all'Accademia di Venezia, ma dopo pochi mesi trasloca a Milano con la sorella e la madre, ormai vedova. «Lo faceva soffrire», ricorda Marinetti, «quella cameretta di appartamentuccio fuori Porta Genova abitato con la madre e sua sorella costrette a vivere facendo camicie».
Umberto frequenta circoli anarchici e socialisti, si dichiara marxista e campa facendo illustrazioni commerciali: non vende un dipinto. In una pagina di diario, nel 1907, annota: «Sento che voglio dipingere il nuovo, il frutto del nostro tempo industriale. Tutto il passato, meravigliosamente grande, m'opprime, io voglio del nuovo!». «Effetì» non esita a finanziarlo, lo riveste - vuole che i futuristi siano eleganti, a aumentare l'impatto delle idee iconoclaste - e lo aiuta in ogni modo: gode nel vedere soddisfatta «la sua ansietà di vita di lusso fra uomini ricchi e donne a vesti sfarzose».
Lo incarica di scrivere il Manifesto della pittura futurista, insieme a Russolo e a Carrà, e lo pubblica l'11 febbraio 1910. La pittura futurista dovrà ispirarsi ai «tangibili miracoli della vita contemporanea», alla «lotta spasmodica per la conquista dell'ignoto», alla «frenetica attività delle grandi capitali». Vitale è soltanto l'arte capace di «rendere e magnificare la vita odierna, incessantemente e tumultuosamente trasformata dalla scienza vittoriosa». Quello stesso anno Boccioni trasforma la teoria nel capolavoro La città che sale, oggi al Moma di New York.
L'ammirazione di Boccioni per Marinetti era pari alla gratitudine, e nel 1913 litigò con la sua amante Sibilla Aleramo, che gli aveva riportato - condividendole - alcune considerazioni irrispettose su «Effetì»: «Marinetti è un genio e non v'è chiacchiera di femmina o di cenacoli letterari», le scrisse, «che mi possa far cambiare idea».
Poi scoppiò la guerra. Per loro fu una guerra di trincea e di fango - tutt'altro che futurista - che costò la vita a due giovani geni: Sant'Elia e Boccioni. Il primo colpito da una palla in fronte, il secondo morto in modo ancora peggiore. Addetto alle bombarde, venne disarcionato dalla sua cavalla da tiro, spaventata da un treno, batté la testa e - con un piede impigliato nella staffa - venne trascinato per parecchi metri. Il 17 agosto 1916 spirò dopo una breve agonia, senza riprendere conoscenza. Aveva 34 anni e aveva fatto in tempo - prima di morire - a cancellare ogni oleografia di guerra, coniando l'equazione «guerra = insetti + noia» e sentenziando il proprio disprezzo «per tutto ciò che non è arte».
«Effetì» apprese la notizia da Bruno Corra, che lo vide scoppiare in un pianto inarrestabile: «Le lacrime schizzavano dai suoi occhi con rabbiosa veemenza, non gli scendevano giù per le gote». Il dolore per la scomparsa dell'amico era attenuato dalla coscienza di avere scoperto e imposto il pittore Boccioni, che forse sarebbe stato ucciso ugualmente in guerra - povero e ignoto - senza avere mai prodotto i suoi capolavori.
C'è tutto questo, e molto altro, nel saggio di Floreani, compresa l'analisi dell'influenza di Boccioni su movimenti e artisti successivi, come l'Arte povera, Lucio Fontana, Andy Warhol, Carmelo Bene. Del resto Boccioni aveva letto nel futuro, e lo dimostra un appunto per una conferenza del 1911: «Verrà un tempo in cui il quadro non basterà più: la sua immobilità sarà un anacronismo col movimento vertiginoso della vita umana.
L'occhio dell'uomo percepirà i colori come sentimenti in sé: i colori moltiplicati non avranno bisogno di forme per essere compresi, e le opere pittoriche saranno emanazioni luminose, gas colorati, che sulla scena d'un libero orizzonte commuoveranno ed elettrizzeranno l'anima complessa d'una folla che non possiamo ancora concepire».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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