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Così a Versailles fu firmata la pace della discordia

Le illusioni create nelle trincee della Grande guerra detonarono dopo. Due saggi ci spiegano perché

Così a Versailles fu firmata la pace della discordia

Il 28 giugno 1919, quando i delegati tedeschi vennero fatti sfilare verso la Galleria degli specchi per firmare quello che sarebbe passato alla storia come il trattato di Versailles, andò in scena una complessa e umiliante coreografia.

Il luogo era stato scelto perché lì, quasi mezzo secolo prima, la Prussia vincitrice su Napoleone III aveva fondato il Secondo Reich. La delegazione tedesca, che fu appositamente filmata, venne convocata per ultima. Lungo il percorso dovette passare di fronte ad un gruppo di reduci francesi rimasti mutilati durante i feroci combattimenti della Prima guerra mondiale. Il presidente Clemenceau li salutò e chiarì loro quello che stava per succedere: «La nazione francese, che oggi sono qui a rappresentare, saluta tutti voi che avete pagato questa vittoria col vostro stesso sangue. La cerimonia di quest'oggi non è che il primo passo verso un risarcimento. E ce ne saranno molti altri».

Iniziò così, cent'anni fa, quel percorso che avrebbe dovuto portare l'Europa, e il mondo, verso la pace e invece contribuì a portarlo dritto dritto verso la Seconda guerra mondiale.

Molti storici si sono dedicati ad analizzare il fallimento di Versailles. Tanto per fare un esempio, lo storico tedesco Karl Dietrich Bracher ha sostenuto che le clausole di Versailles furono sia un onere insostenibile per il popolo tedesco, sia una «forza psicologica e propagandistica» che venne ampiamente usata per proiettare la Germania verso il folle desiderio di rivincita del Terzo Reich. Ora però arriva una nuova analisi, molto completa, degli eventi vergata da Eckart Conze, storiografo e professore alla Philipps-Universität Marburg in Germania. Si intitola 1919 La grande illusione (pagg. 566, euro 28) e in Italia è pubblicato per i tipi di Rizzoli.

Conze non si limita a puntare il dito contro il trattato (in realtà un insieme di trattati) che regolò la fine della guerra. Questo lo hanno già fatto in tanti. Addirittura Eric Hobsbawm, storico brillante ma molto ideologico, arrivò a dire che il principio della riorganizzazione, su base etnica, della carta dell'Europa, accolto dal trattato in base ai famosi 14 punti di Woodrow Wilson, paradossalmente avrebbe finito per fornire un pretesto ai successivi genocidi e, addirittura, alla Shoah. Piuttosto Conze analizza come si generò quella complessa trappola che portò verso un trattato iniquo.

La parte del libro più interessante è quella che dimostra come tutta la Prima guerra mondiale sia stata una grande macchina delle illusioni, fabbricate dalla politica e vendute ai cittadini-soldati. In una guerra totale, per convincere il soldato al fronte che valesse la pena farsi macellare da una mitragliatrice era necessario alzare il livello delle promesse sul dopoguerra, mentire sulle condizioni reali della nazione. Nel 1916 e nel 1917 grazie a questo meccanismo ogni tentativo di una pace di compromesso venne spazzato via sia in Francia sia in Germania. Già nel 1914 il deputato centrista tedesco Matthias Erzberger scriveva: «Questa lotta sanguinosa (...) impone con urgenza di sfruttare il contesto bellico per assicurare stabilmente la supremazia militare della Germania sul continente, concedendo al popolo tedesco almeno cent'anni di pace indisturbata».

Quanto queste premesse/promesse potessero creare poi un cortocircuito con le dure realtà post belliche è evidente. Ma non solo per i tedeschi. Paradossalmente anche molti dei vincitori si sentivano defraudati. Il risultato non corrispondeva per nessuno allo sforzo immane. Durante il conflitto il presidente degli Usa, Woodrow Wilson (1856-1924), aveva lanciato l'unica idea diplomaticamente sostenibile ovvero «peace without victory» ma quest'idea risultò inconcepibile non solo per la Francia che aveva pagato un prezzo altissimo, ma anche per tutte quelle nazioni che erano state attirate nel conflitto a partire da quello che, parlando dell'Italia, il primo ministro Antonio Salandra aveva chiamato «sacro egoismo», che ci avrebbe fatto acquistare «frontiere su terra e mare non più aperte all'annessione». A Stati come Bulgaria, Romania, Grecia e Italia si poteva chiedere, a cose fatte, una pace senza vittoria? No.

Ancora più complessa la situazione sul fronte orientale. Il tema è analizzato nel libro di Conze ma è appena arrivato in libreria anche il saggio molto completo di Prit Buttar Imperi spezzati. Il fronte orientale 1917-1921 (Leg, pagg. 572, euro 30). Il tre marzo del 1918 la Germania aveva firmato la pace di Brest-Litovsk con la Russia bolscevica. Voleva essere un'imitazione del modello pensato per contenere la Francia post napoleonica, però a danno della Russia. Prima di Versailles il trattato, stipulato da una Germania solo momentaneamente forte, gettò le basi della destabilizzazione di tutta l'Est Europa. Destabilizzazione che dopo la guerra nessuno fu in grado di risolvere e si sommò al crollo degli imperi centrali, che Versailles finì per sancire in modo ferreo. Come dice Conze, forse niente di ciò che è accaduto dopo il 1919 poteva dirsi inevitabile nel momento in cui il trattato di Versailles venne firmato. Di certo attorno a Versailles e alla parola pace erano state alimentate, in milioni e milioni di persone, aspettative a cui nessuno poteva dare risposta. Non fallì la pace ma l'illusione di una pace, ricca e paradisiaca, che era stata venduta per vincere la guerra. Illusione che costò un'altra guerra. Ed è questa la lezione, secondo Conze, che la politica di oggi deve metabolizzare. Creando aspettative incolmabili si gettano le nazioni nel baratro.

A ripetizione.

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