Ma in una società globale, dove esistono multinazionali con un fatturato superiore a quello di molti Stati, chi comanda davvero? Come si formano i processi decisionali in un pianeta dove esistono dei leader eletti dai rispettivi cittadini ma esistono anche personaggi, molto meno noti, che si trovano al vertice di entità economiche transnazionali che intervengono sulla politica condizionandola? Sono le domande a cui prova a rispondere il saggio di Giorgio Galli (noto politologo) e Mario Caligiuri (esperto di comunicazione): Come si comanda il mondo. Teorie, volti, intrecci (Rubbettino, pagg. 234, euro 16, in libreria da oggi).
Il libro parte subito chiarendo che non è il caso di avvalorare teorie del complotto, sempre più diffuse dal 2001 in poi. Non esiste una specie di «regia occulta» stile Spectre che controlla i destini del mondo. Però indubbiamente secondo i due autori, e l'ampio florilegio di letteratura scientifica che citano, qualcosa negli ultimi 150 anni è successo. Gli Stati hanno smesso di essere il centro principale del potere nella nostra società. Le élite politiche avrebbero ceduto, almeno in parte, il passo a nuove élite che si muovono su un piano diverso e che hanno alcune caratteristiche particolari: non sono elettive, non sono automaticamente note al grande pubblico, si allargano per cooptazione e sono caratterizzate da un forte grado di competizione al loro interno.
Qualche numero tra i molti forniti da Galli e Caligiuri? Nel 2007 il Pil globale era di 47 trilioni di dollari. Nello stesso anno le 250 più importanti società del mondo hanno realizzato complessivamente un fatturato di 14,87 trilioni di dollari: «Una cifra quasi equivalente a un terzo del Pil globale e superiore a quelli degli Usa e dell'Unione europea, rispettivamente 13,20 trilioni e 13,74 trilioni». Ma la struttura economica delle multinazionali è ancora più verticistica di quanto possa sembrare da questo dato. «La somma del fatturato delle prime 5 società (Walmart, Exxon Mobil, Royal Dutch Shell, Bp e General Motors) ammontava a circa 1,5 trilioni di dollari, un importo superiore al Pil di tutti i Paesi, tranne 7». Questa rete di multinazionali spesso è strettamente collegata al sistema bancario e anche alle agenzie di rating. Cosa possa comportare questo per i governi dei singoli Paesi che devono gestire un debito pubblico è abbastanza evidente. Non lo fosse, Galli e Caligiuri illustrano bene il caso del declassamento del rating dell'Italia che fece cadere il governo Berlusconi nel 2011. Nessun complottismo ovviamente, anche in questo caso però le due agenzie di rating che fecero partire la svalutazione (Standard & Poor's e Moody's) sono entrambe partecipate dalla stessa società di investimento statunitense, società che possedeva anche una quota consistente di Bund tedeschi. Nell'economia globalizzata è normale ma può facilmente alimentare nei normali cittadini una sensazione di fragilità e di impotenza rispetto ai giganti della finanza. E non è l'unico cortocircuito del sistema: all'interno di queste multinazionali le decisioni, Galli e Caligiuri dedicano vari capitoli a dimostrarlo, vengono prese da un numero molto ristretto di persone. Per le quali non si può usare il termine «pochi eletti», perché indubbiamente hanno un grande potere ma non li ha eletti (nel senso democratico) nessuno. Esiste quindi una sorta di «superclass» planetaria rispetto alla quale anche il tradizionale potere politico può trovarsi in condizione di inferiorità. Quanto è estesa? L'indicatore utilizzato nel saggio per valutarlo è essenzialmente quello delle multiposizioni di potere. Ci sono persone che siedono nei consigli di amministrazione di molte di queste multinazionali contemporaneamente. Ci sono 65 persone il cui nome compare in moltissimi consigli di amministrazione e che vengono riportati in una apposita appendice del saggio che vede al primo posto James Staley, ceo di Barclays e al sessantacinquesimo Wang Yupu, del China Petrolchemical Group.
Esiste poi anche una sorta di supremazia universitaria. Determinate università si trasformano in club esclusivi da cui molto facilmente si arriva al vertice del potere economico. E in certi casi la stessa associazione di studenti può giocarsi la partita per la presidenza degli Stati Uniti. Non vi torna? La più esclusiva associazione di studenti di Yale è la Skull and Bones Society. Sono stati suoi membri sia George W. Bush, presidente eletto nel 2001, sia il suo sfidante John F. Kerry. Insomma in quell'anno per gli Usa c'era una sola possibilità: eleggere un presidente membro della Skull and Bones Society. Del resto tornando alle multinazionali spesso la stessa super azienda finanzia le campagne elettorali di entrambi i candidati alle presidenziali statunitensi. Chiunque vinca, così, il lobbista è di riferimento è garantito. Il presidente eletto negli Usa che ha meno avuto bisogno del denaro degli altri degli ultimi decenni è Donald Trump. Che comunque ha posizionato in ruoli importanti molti dei suoi finanziatori.
La conclusione dei due studiosi è che alla fine davvero una cinquantina di società e poche decine di persone (i cui nomi, come quello di Koji Nagai o Thomas Buberl, ai più non dicono nulla) abbiano una possibilità di azione sulla politica mondiale davvero alta, il che crea il rischio di una progressiva asimmetria tra la rappresentanza politica e i membri di questo «capitalismo relazionale». A soffrirne potrebbero essere, secondo i due studiosi, sia la libertà di mercato sia la democrazia. Tutto questo senza nessuna cupola e senza nessun complotto, ma semplicemente per l'evoluzione del sistema economico. Ovviamente non si può pensare che con la stessa facilità Galli e Caligiuri indichino una soluzione. Però forniscono due stimoli.
Il primo è che si potrebbe portare più democrazia elettiva anche nella gestione delle imprese. Il secondo è che, maggiore è la comprensione che il cittadino ha del sistema economico, maggiore è la sua possibilità di controllarlo.
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