Il dandy e il poeta Bryan Ferry canta i classici di Dylan

Sorpresa: nel cd «Dylanesque» l’ex leader dei Roxy Music ridà nuova vita a capolavori come «Blowin’ in the wind»

Il dandy e il  poeta Bryan Ferry canta i classici di  Dylan

da Milano

A sei mesi da Modern times, il suo ultimo capolavoro, Bob Dylan torna a far parlare di sé, questa volta per interposta persona: quella di Bryan Ferry, ex leader dei Roxy Music, musicista di vena aristocratica e alquanto estetizzante. Che tuttavia canta, arrangia e produce questo Dylanesque, undici brani del cantore di Duluth, con sufficiente autonomia di stile ma anche con rispettosa aderenza concettuale e vigile senso della poesia. Che è poi la scoscesa, acre, funambolica poesia dylaniana, ardua da riprodurre e da restituire al fascino originario.
Ferry, artista apparentemente lontano da Dylan, ci riesce splendidamente. Fors’anche perché fa suo il monito di Paolo di Tarso, secondo cui «la lettera uccide, lo spirito vivifica»: e infatti ha l’aria di voler esplorare, più che la lettera, lo spirito del grande maestro, le sue intenzioni riposte, la sua modernità non scalfita dai decenni, il suo mistero ricco d’incognite. E di voler evitare ricalchi che comporterebbero paragoni esiziali: così la sua voce, dolce e carnosa, sostituisce quella aspra, metafisica di Dylan evitando ogni assurda scimmiottatura, ogni mimetismo perdente in partenza.
Non solo: Ferry ricrea quel senso fluido e ondoso della melodia che Dylan, nei suoi concerti, suole occultare dietro uno spigoloso recitar cantando, forse in omaggio all’intuizione di Jean Genet, secondo il quale «la musica, anche la più lieve, corrode la poesia», o forse nel tentativo di arginare il proprio mito, minimizzando il proprio genio. L’ex Roxy Music, il genio dylaniano, lo ammette e lo celebra senza ritegno, con una dedizione assoluta e tuttavia con assoluta libertà: ché costringere Dylan nei confini del dandysmo di Ferry, significherebbe tarpargli le ali e ridurre a espressione di un’epoca canzoni che le epoche le scavalcano.
Ecco allora Just like Tom thumb’s blues, da Highway 61 revisited, aprire il disco in una versione trasfigurata, eppur fedele al mood originario: col canto che parte quasi esitante, perso nelle brume del subconscio, poi via via si rafforza, si gonfia, esplode in miraggi di luce sobillati da un’armonica visionaria. Ed ecco le chitarre nervose di Simple twist of fate, quella melodia che striscia come una serpe per poi svettare in impennate improvvise, con grazia da danzatrice. E alla quale Ferry concede perfino una parentesi barocca, agitando fantasmi bachiani nella lunga intrusione del violino.
Poi c’è la riflessione sognante di Make you feel my love, la sorniona ironia di All I really wanna do, la rarefazione sospesa di Positively 4th street, il garbo da ninnananna di If note for you esaltato dalla tastiera di Brian Eno. E ancora Baby let me follow, cantata in stile elvisiano ad evocare antiche predilezioni del Dylan adolescente. E tuttavia ci si emoziona soprattutto in The times they are a-changin’, rifatta con la perentorietà, nel ritmo, d’una scoperta definitiva, ma anche, nel gioco flessuoso delle chitarre, con lo stupore inquisitorio d’un dubbio sempre aperto: quasi a sottolineare la perpetua attualità di Dylan e delle sue domande blowin’ in the wind, appese al vento, condannate a restare senza risposta. Ancora? Knockin’ on heaven’s doors reimposta sul piccolo trotto il viaggio dylaniano alle porte del cielo, e riduce a riflesso interiore quel bussare discreto che ricusa ogni sospetto d’epopea, si fa metafisico come il suono della chitarra che simula il canto aurorale di un ottavino.


Ci si avvia alla fine con Gates of Eden, mutata in dagherrotipo d’un West remoto, trasfigurato dalla nostalgia e dalla memoria. E si conclude con All along the watchtower: l’unico brano dell’album in cui Bryan Ferry concede qualcosa all’oleografia.

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