Cultura e Spettacoli

D'Annunzio alla sbarra. Fu mitomane superuomo o uomo del suo tempo?

Cronaca di un processo-show al Vate, impersonato da Giordano Bruno Guerri. È stato assolto, ma...

D'Annunzio alla sbarra. Fu mitomane superuomo o uomo del suo tempo?

Mala tempora currunt, di censure e cancellazioni. La Storia è sotto processo, e il vizio è giudicare il passato con i codici civili e morali del presente. Quindi: perché non mettere in scena un falso processo a un personaggio di ieri che smascheri le vere forme dell'intolleranza di oggi?

Così, ecco che il festival dannunziano di Pescara titolo poetico e guerriero: «La festa della Rivoluzione» - ha chiuso la sua terza edizione, l'altra sera, con un icastico processo a Gabriele d'Annunzio, figlio geniale e dissennato della città.

Appunti di un cronista giudiziario: ore venti, quartiere Pineta, cortile centrale dell'Aurum, oggi centro del festival, un tempo sede della distilleria produttrice del celebre liquore, dal nome - manco a dirlo - di invenzione dannunziana.

Sul palco, al centro - physique du rôle e parterre de rois: la crème di Pecara è tutta in platea - c'è lui, Gabriele d'Annunzio, impersonato da Giordano Bruno Guerri: fenotipo dannunziano e delfino d'oro, la più alta onorificenza pescarese, sul revers della giacca. A destra l'accusa: lo storico Alessandro Sansoni. A sinistra la difesa: il direttore del Tg2 Gennaro Sangiuliano con i suoi testimoni, Paolo Corsini e Marcello Veneziani. Al centro, il Presidente della giuria: il sindaco di Pescara e avvocato - Carlo Masci.

Pescara è splendida, ma la legittima suspicione è che non sia la sede più adatta al processo. Il clima è favorevolissimo al Vate, accompagnato nell'aula-palco tra gli applausi del pubblico.

Il capo di imputazione è metafisico: l'imputato Gabriele d'Annunzio - eroe di guerra, poeta, capopopolo, esteta ha voluto superare i limiti dell'Uomo. «Non ho tentato di superare l'uomo, l'ho sicuramente superato!», ribatte.

La tracotanza, oltre che un vizio, è un crimine?

L'imputato non si rivolge neppure alla corte, ma al pubblico: «Io a 25 anni, nel Piacere, ho scritto che l'uomo di intelletto fa della propria vita un'opera d'arte. Io l'ho fatto! E voi?». «Sono poeta, eroe, ho conquistato città senza sparare un colpo, e che poi ho donato all'Italia, ho promulgato una Costituzione, ho avuto donne splendide e vissuto nel lusso, perché io sono un animale di lusso. È vero: non sono un Uomo. Sono un Superuomo. È forse una colpa? E il processo potrebbe già chiudersi qua».

Invece inizia. L'accusa nella tesi di Alessandro Sansoni - è che la sua hybris lo ha reso complice dell'avvento della modernità in Italia, con tutto ciò che ha comportato in termini di disgregazione della morale e dei costumi, di massificazione della società e della cultura, di esplosione della violenza amplificata dalla velocità e dalla tecnica, che trovò la sua tempesta nella Guerra mondiale. Fu il suo opportunismo e la brama di successo a renderlo funzionale ai tempi nuovi.

«Lo conosce Lei il motto Me ne frego? L'ho inventato io!».

«L'imputato si sieda!».

La parola alla difesa: «L'idea di giudicare un uomo perché segnò il proprio tempo traghettando l'Italia dall'800 alla modernità, è folle. D'Annunzio è il Vate, colui che fa una profezia: quella della Nuova Italia, che le avanguardie del '900 cercheranno di realizzare. D'Annunzio non volle conquistare il Paese ma muovere un risveglio delle coscienze».

«Il suo merito testimonia Marcello Veneziani - è stato quello di farci sentire con orgoglio di essere italiani. Fu un mitomane? Sì. Ma all'altezza del proprio mito! Per formare la coscienza degli italiani ha combattuto, trasvolato, rischiato la vita, perso un occhio...».

«E ferito, e mutilato, ho scritto il Notturno, il mio capolavoro!».

«Silenzio!».

«Il punto essenziale è che d'Annunzio parla il secondo testimone a favore, Paolo Corsini - è uno dei pochissimi letterati che risulta ben presente, per la sua vita e per le sue opere, per il suo lascito e per la sua leggenda, anche a chi ha una cultura incerta, anche fra quanti non sono lettori forti. E la sua popolarità così diffusa è dovuta proprio a ciò che l'accusa ritiene essere la sua colpa: aver voluto superare se stesso e il suo tempo».

Istrionico, incontenibile, inimitabile, Guerri-d'Annunzio si prende il palco e l'aula: «Mi si accusa di una vita esagerata. Ma esagerata secondo i giudizi della meschina, provinciale, borghese Italietta di fine '800. Mi si accusava di dare scandalo, si giudicavano i miei vizi, il voler possedere il Bello: auto, case, donne, abiti... Ma io ero avanti di decenni. Oggi voi tutti rivendicate una libertà sessuale che io vi ho donato e anticipato. Ho liberato anche le donne: quelle che sono state con me hanno sfidato i pregiudizi della propria epoca, e hanno vinto».

È uno spettacolo di teatro, storia, politica. Inutile che il Presidente inviti l'imputato a evitare protagonismi...

La difesa gioca la carta dell'eroismo: «Il mio cliente, che non mi pagherà mai (risate in aula, Silenzio!) avrebbe potuto assumere una leadership politica: dopo la Prima guerra mondiale era più famoso di Mussolini, i giovani che avevano combattuto nelle trincee guardavano a lui. Fu Lenin a dire: In Italia solo tre persone possono fare la rivoluzione: Mussolini, Marinetti o d'Annunzio. Solo lui poteva guidare un movimento politico, come in parte fece a Fiume. Ma poi si fermò. E fu ferocemente contrario all'alleanza tra il Duce e Hitler, quel ridicolo Nibelungo truccato alla Charlot...».

«Mussolini mi tradì a Fiume. Ma sopratutto tradì il fascismo: quello che nacque a San Sepolcro nel 1919, e ciò che si proclamò a Fiume sia il manifesto di San Sepolcro sia la Carta del Carnaro non a caso furono scritti da Alceste De Ambris era un fascismo rivoluzionario che poi rimase lettera morta. E divenne tutt'altro...».

«La verità - tuona l'accusa - è che Lei, d'Annunzio, è inadeguato alla politica. È passato da destra a sinistra, nella Carta del Carnaro c'è tutto e il contrario di tutto. Alla coerenza delle idee ha sempre preferito il suo narcisismo. Lei cambiò posizione secondo la convenienza...».

Le ultime parole - chi potrebbe dubitarlo - sono ancor del Vate, che si difende invocando la Carta del Carnaro: «È un'ode alla libertà e tutta dalla parte delle masse: conteneva, nel 1919, la possibilità del divorzio. E voi quando lo avete avuto invece? Cinquant'anni dopo! Conteneva il diritto alle donne di votare: che fu concesso solo nel 1946, e anche quello di essere elette, qualcosa di inimmaginabile allora. Anzi: era tale la parità tra uomini e donne, che anche loro avevano l'obbligo del servizio militare...».

Il pubblico rumoreggia. È il momento del verdetto.

«Lascerò che mi giudichiate, anche se il processo io l'ho già vinto: perché sono qua, tutti mi conoscono, mi studiano da Tokyo a Montevideo. Sono ancora vivo! Si accendano le luci! Voglio vedervi in faccia!».

Luci. Tutti in piedi. La corte emette la sentenza. «Il Tribunale di Pescara, in nome del Popolo Italiano... assolve con formula piena Gabriele d'Annunzio con la seguente motivazione: perché ha costantemente perseguito il diritto del singolo di autodeterminarsi, e ciò con riferimento sia allo sviluppo individuale che a quello collettivo. Affermava egli, infatti, che nella libertà di autodeterminazione del singolo risiedessero le fondamenta del progresso materiale e spirituale dell'uomo. E proprio al fine di conquistare detto progresso, l'imputato riconosceva importanza capitale al diritto al lavoro e l'eguaglianza di sesso, razza, lingua, religione».

Applausi dal pubblico.

L'accusa non presenterà appello.

Si ode un grido, l'ultimo, del poeta-soldato, assolto e assorto: «Conservate intera la libertà fino all'ebbrezza!».

Sipario.

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