Cultura e Spettacoli

David Sylvian da sempre scrive i suoni del futuro

David Sylvian da sempre scrive i suoni del futuro

Parlare di David Sylvian significa descrivere una musica del futuro, in anticipo di circa vent'anni, ed è ciò che osa fare, con ottimi risultati, Chris Young nella sua imponente opera On The Periphery. David Sylvian. A Biography. The Solo Years (Malin Publishing, 384 pp., 29 euro sul sito www.sylvianbiography.com). Sylvian non è solo un cantante, ma anche un filosofo, cultore delle discipline orientali, tratto che è indispensabile per capire la sua opera. Forse anche questo è un lascito per l'artista dell'avvenire, che dovrà avere una preparazione spirituale, perfino superiore a quella musicale. Lo stesso termine postmoderno sarebbe limitante per Sylvian, interessato a un coacervo di dottrine che vanno dall'Hinduismo al Buddhismo, in tutte le sue specie, tibetano o Zen, la Cabala, la Gnosi, le vie degli Indiani Navajo e il mondo islamico. Considerando anche il punto di partenza, il cristianesimo, che lega l'artista alla cultura occidentale. Young si occupa della carriera solista di Sylvian, frontman dei Japan negli '80; d'altra parte, considera anche le canzoni che anticipano il distacco dal gruppo, Ghosts e Night Porter, il riferimento è al film della Cavani, dove si intravede la possibilità di nuove possibilità espressive. L'arte di Sylvian fa corpo con la vita, e queste song indicano il tormento di un percorso esistenziale che arricchisce la musica e la trasporta in altre dimensioni. «Proprio quando penso di star vincendo/quando ho abbattuto ogni porta/gli spettri della mia vita/soffiano più selvaggi che mai,/quando pensavo di non fermarmi mai/ed ebbi l'occasione di essere un re»: Sylvian scrive musica e testi delle sue composizioni, e non può che parlare di sé, di una riservatezza basilare, che pure lo ha portato a collaborare con artisti come Robert Fripp e Sakamoto. Young divide la carriera di Sylvian in tre fasi, l'inizio, lo sviluppo e l'ultima, la sperimentale, la più interessante. Sylvian si è sempre più allontanato dalla mentalità della discografia commerciale, e da quella di gruppo: il suo marcato senso di solitudine lo ha spinto da Blemish in poi, passando per Manafon, l'album più enigmatico, a evidenziare la voce, a ridimensionare l'accompagnamento strumentale in favore di arrangiamenti che conducessero alle soglie del silenzio. Quel silenzio che molti musicisti, Cage in primis, hanno ritenuto la componente primaria della musica. Il canto di Sylvian veleggia in territori inediti, dove i fan della prima ora stentano a ritrovarsi, ed è giunto al culmine di un percorso, al punto-limite; quantunque i maestri zen suggeriscano a chi è giunto sulla vetta di continuare a salire, senza sforzo..

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