Denis Johnson, il Lord Jim americano

L'autore del bellissimo «Albero di fumo» ha scavato nelle nostre tenebre

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Davide Brullo

Prendi Joseph Conrad, drogalo a dovere, e fagli fare un giro a Las Vegas. Il risultato ti darà Denis Johnson, il Lord Jim della letteratura contemporanea, duce nel sottosuolo del romanzo americano. Nato incidentalmente in Germania, nel 1949, incidentalmente è stato un alunno di Raymond Carver. Faccia da colosso hollywoodiano, un po' Michael Madsen un po' Jeff Bridges, Denis, speleologo delle ambiguità, comincia e continua come poeta. The Man Among the Seals è il primo libro di questo Rimbaud suburbano, aveva 19 anni. Il successo, planetario, arriva che Johnson ha 43 anni, con Jesus' Son. La raccolta di racconti viene tradotta in film nel 1999, con Billy Crudup e Dennis Hopper e una sciarpa di applausi alla Mostra del Cinema di Venezia.

Scrittore dalla vita solitaria e psichedelica, pochi frizzi e molte palle, Johnson, come un cecchino, spara sul cranio della letteratura occidentale libri spesso decisivi. Angeli (1981) e Fiskadoro (1985), ad esempio, tradotti in Italia da Feltrinelli e scomparsi da quel dì, e The Stars at Noon (1986) e Already Dead (1998) e Resuscitation of a Hanged Man (2001), che è ora di tradurre, almeno adesso che il genio è nella tomba. Tre mogli e la fama di uno che non è proprio un buontempone, di Denis Johnson si torna a parlare nel 2007. Con spavalda ferocia lo scrittore mette i denti nelle stimmate della storia degli Stati Uniti d'America. La guerra in Vietnam. Albero di fumo. 750 pagine di orrore. Una potenza narrativa al cui cospetto Apocalypse Now pare un orpello ai Promessi Sposi. «Buttavano bombe a mano dentro le capanne amputando braccia e gambe a contadini ignoranti, salvavano cuccioli affamati e se li portavano a casa, in Mississippi, nascosti sotto la camicia, incendiavano interi villaggi e violentavano bambine, rubavano jeep cariche di medicine per salvare la vita agli orfani»: questa è la didascalia di luminescente strazio della guerra in Vietnam. Ma Johnson non è uno scrittore «realista», non si accontenta dell'aldiqua; lui, con truce grandezza, romanziere evocato da uno dei biblici Libri dei Re, sfonda l'aldilà, sfida Dio. «Benché le cose che sono malvagie, nella misura in cui sono malvagie, non siano buone, tuttavia è un bene che esistano cose malvagie», fa dire a un suo antieroe, che ragiona, facendo slalom tra le bombe, «sulla dottrina della predestinazione che promette un Inferno pieno di anime create espressamente per la dannazione».

Autore di un ultimo romanzo pazzesco, Mostri che ridono (2014), pubblicato da Einaudi lo scorso anno, ambientato in un'Africa di siderale cattiveria, set di lotte tra servizi segreti di mezzo mondo, Johnson come Melville, come Conrad, come Sant'Agostino ha fatto letteratura interrogando le tenebre. Perché esiste il male? Perché l'uomo è malvagio? Nel fogliame delle domande impossibili nascono i grandi libri. «Dio prenderà ciò che vuole. Prende i bambini tra le sue fauci. Possiamo fermarlo?», latra una santona africana nell'ultimo, ormai testamentario, romanzo di Johnson.

«Non resta che Dio», scrive Skip, uno dei sinistri protagonisti di Albero di fumo. In mezzo alla giungla dei verbi, Johnson ha usato le parole come selci. Ha scavato. Fino all'ultima pupilla di luce. Dio gli sarà grato.

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