Stenio Solinas
da Venezia
In uno sperduto avamposto dell'impero, lì dove oltre confine c'è un mondo barbarico quanto sconosciuto, un magistrato a fine carriera esercita le sue funzioni di governatore in attesa di una pensione che lo spaventa più della solitudine di cui è circondato: la città non fa più per lui e in fondo la stessa vita civile. Un giorno però arriva in quella fortezza sul nulla il colonnello Joll: il governo teme che la linea di frontiera non sia più sicura, che i barbari si preparino ad attraversarla e, così facendo, a compromettere l'autorità imperiale. Non è mai successo prima, fa notare il magistrato all'ufficiale che lo ha convocato per saperne di più, e l'unico pericolo è un po' di nomadismo con annesso furto di bestiame, troppo poco, insomma, per impensierire gli alti comandi. Ma il colonnello Joll replica che no, la minaccia non è da prendere sottogamba: ridurre i barbari a nomadi è indice di miopia amministrativa quanto politica. Quello che gli occorre è qualche informazione e per ottenerla ogni metodo è buono, compresa la tortura... Così, il magistrato, che fino al giorno prima era sullo stesso lato di confine del colonnello suo collega, si ritrova a poco a poco a varcare quella linea che lo inserisce ipso facto fra i barbari nemici, e poco importa se lo sconfinamento è proprio in nome di quegli ideali che avevano fatto grande l'impero: giustizia, dignità, libertà, protezione.
Tratto da un romanzo di J.M. Coetzee (autore per l'occasione anche della sceneggiatura), Waiting for the Barbarians, di Ciro Guerra, ieri in concorso, fa parte di quella meditazione che corre lungo tutta la storia del pensiero occidentale, dalla Roma repubblicana all'Inghilterra vittoriana, l'incontro-scontro, l'attesa-invasione, la legge e i fuori legge, il conosciuto e l'ignoto, la civiltà, sempre propria, la barbarie, sempre altrui. In origine, si sa, «oi barbaroi» erano semplicemente gli stranieri...
Senza datarlo temporalmente, ma lasciandolo oscillare fra Ottocento e Novecento, e collocandolo in uno spazio asiatico (per quanto ricreato in Marocco) che nella lingua e nei fisici rimanda alla Mongolia, il film ha il suo punto di forza, oltre che nella bellezza dei paesaggi e in una sorta di tempo scenico dilatato, in un Mark Rylance da Coppa Volpi, sorta di Cristo laico che si ritrova di colpo sulle spalle il peso impossibile di salvare l'anima del mondo dall'orrore... «Da inglese - dice Rylance - so perfettamente che cosa abbia significato costruire un impero e, per quanto inconsapevolmente, questa costruzione ha fatto anche di me un anti-barbaro. Voglio dire che lo scoprire certe storture e il tentare di raddrizzarle, lo stare cioè dalla parte delle vittime, finisce paradossalmente per vittimizzare il resto del mondo»... Johnny Depp, che gli fa egregiamente da spalla nel ruolo del colonnello Joll, è sulla stessa lunghezza d'onda: «È un cattivo che non sa di esserlo, più un masochista che un sadico. Gli occhiali scuri che porta sono tanto minacciosi per gli altri quanto protettivi per lui: nascondono le emozioni, ciò che c'è dentro»...
L'idea che in fondo i barbari siamo noi, ovvero una costruzione e un bisogno, è la chiave nascosta del film: «Ero partito con l'idea di un'allegoria del potere - dice il regista - ovvero il racconto di ciò che il potere ha bisogno di controllare. Poi mi sono accorto che il tema era la decisione, la scelta, fra chi detiene e chi viene scartato, messo ai margini e poi al bando.
Il fatto è che noi abbiamo bisogno dei barbari per odiarli, andiamo cioè verso la creazione di un nemico e barbaro può persino rivelarsi il governo che noi odiamo. Anche i nostri discorsi sono pieni di odio, oggi più che mai». L'attesa dei barbari spesso è un'illusione, qualche volta una catarsi e/o una punizione, quasi sempre una mistificazione.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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